Qualche settimana fa avevamo parlato del forte ribasso dei listini azionari avvenuto a fine novembre sulla scia dell’incertezza che, a livello globale, le reazioni scomposte dei vari governi alla nuova variante del virus SarsCov2 aveva suscitato negli operatori.
Ovviamente si trattava di un discorso relativo alle aspettative da qui a fine anno e, relativamente, ininfluente, a livello della crescita economica, nonostante diversi titoli allarmanti sulle testate giornalistiche, anche solo giudicando dalle performance da inizio anno dei vari indici che, con esclusione dell’Hang Seng di Hong Kong sono ampiamente positive.
Detto questo, però, alcuni avvenimenti in queste settimane hanno sicuramente un certo peso nel delineare gli scenari futuri.
Tutti abbiamo constatato che il rincaro delle materie prime ha surriscaldato l’inflazione un po’ ovunque con un particolare accento in USA e in Cina, dove nel primo caso le ultime rilevazioni la quantificano in un 6.8% annuo, il valore più elevato da vent’anni a questa parte, e nel secondo al 2.3% se misurata sull’indice dei prezzi al consumo ma, addirittura, del 12.9% se misurata sull’indice dei prezzi alla produzione (il valore più elevato negli ultimi 26 anni).
Sono state, di seguito, molto interessanti le reazioni delle autorità monetarie dei principali attori sullo scenario mondiale che hanno avuto delle direzioni, direi, completamente opposte.
La FED, per contrastare la crescita dei prezzi, ha messo l’acceleratore sul tapering, cioè la riduzione progressiva degli stimoli monetari all’economia, contando su un livello di crescita assai sostenuto e previsto intorno al 5.5% a fine dicembre, nonostante il rallentamento nel Q3, che permetterebbe il proseguimento nel processo di “normalizzazione “ della politica monetaria senza grosse ripercussioni su crescita e tasso d’impiego per poter rallentare l’inflazione che sembra sempre più non essere dovuta a una questione congiunturale.
In Asia, d’altro canto, nonostante la crescita dei prezzi, come già illustrato, il PIL ha mostrato segni di rallentamento negli ultimi due trimestri, nonostante sia ancora a livelli assai elevati credibilmente il valore prospettico a fine anno si discosta sensibilmente dagli obiettivi fissati dal governo a cui aggiungere le criticità riscontrate soprattutto nel settore immobiliare con i due default miliardari di Evergrande e Kaisa e da qui la decisione di un taglio dei tassi seppur solo di 5 punti base.
Nel mezzo l’UE dove la Banca centrale fa sapere che non è prevista ancora alcuna riduzione del programma di QE nonostante una sua, annunciata, “rimodulazione” anche perché il modello portato a terra dalla precedente gestione Draghi è a somma zero, nel senso che i bond acquistati sul mercato secondario con allargamento della base monetaria sono mantenuti in portafoglio a scadenza e il rimborso unito alle cedole incassate tempo per tempo fanno sì che la posizione aperta venga chiusa riequilibrando il circolante.
Non è previsto, inoltre, alcun aumento dei tassi per non azzoppare la ripresa economica del continente che, dopo le perturbazioni degli scorsi anni, unite alla crisi pandemica, mostra ancora delle basi non del tutto solide.
Come si vede non c’è una strategia condivisa, mentre in USA il focus è sul contrasto all’inflazione che risale prepotentemente a livelli che molti nemmeno ricordavano, in UE e in Cina l’attenzione resta fissata sulla crescita: in Europa con il mantenimento di un quadro certo, senza dare scossoni dal lato monetario, dovendo contrastare una certa gestione “di reazione” all’evoluzione del quadro pandemico e in Asia con una gestione più accomodante per evitare contraccolpi troppo pesanti di fronte alle criticità che molti gruppi industriali stanno incontrando, soprattutto nel campo immobiliare.
Volendo essere maligni, però, il vero punto da tenere in considerazione per l’evoluzione dello scenario nel 2022 è proprio lo stato dell’economia cinese.
Già il surriscaldamento dell’inflazione è partito da quel lato del mondo, per via dei forti acquisti sulle materie prime per rilanciare il settore produttivo dopo che la pandemia di Covid-19 è partita proprio da una delle sue province ma i primo grandi default aziendali che si sono visti in questi mesi fanno sorgere sicuramente qualche timore sulla tenuta del modello economico del Dragone.
I dati macroeconomici, infatti, mostrano un forte rallentamento nelle vendite al dettaglio, infatti i dati sull’inflazione sono ampiamente mitigati dalla tenuta dei prezzi finali per via del calo della domanda. Potrebbe, ovviamente, trattarsi di un evento congiunturale ma la divergenza fra il dato sui prezzi alla produzione con un in incremento a due cifre (+13,5% all’ultima rilevazione) e la sostanziale tenuta dei prezzi al consumo è un campanello di allarme piuttosto importante.
Non è un mistero che la Cina e gli USA siano stati, negli ultimi anni, il traino della crescita globale e un rallentamento di questi ultimi metterebbe in forse la ripresa prevista per il prossimo anno dopo la crisi sanitaria.
Probabilmente siamo arrivati a un punto di svolta che potrebbe aprire nuovi scenari nel corso dei prossimi mesi ma ancora non è chiara quale sarà la direzione che il sistema economico prenderà perché tutto dipenderà dalla normalizzazione della situazione sanitaria e dalla capacità di reazione dei principali attori dello scacchiere mondiale, magari con la rinascita dell’Europa, negli ultimi anni in verità messa in secondo piano dal dualismo USA-Cina, spinta dal piano Next Generation EU. Si tratta, però, di una mera probabilità che sarà influenzata da tantissime variabili che si dispiegheranno già dalle prossime settimane e che, quindi, solo il tempo ci dirà se si tramuterà in realtà o meno; è l’incertezza, infatti, che sta governando questo periodo e, come già raccontato su queste pagine, questa è il vero nemico di qualsiasi pianificazione del futuro e di qualsiasi velleità di ripresa e solo quando allenterà la sua morsa sarà possibile avere un quadro più chiaro su cui potranno basarsi le aspettative per il futuro.