Sorprende che nel nostro Paese, in questo periodo storico segnato dalla difficoltĆ della gente ad arrivare a fine mese, in cui le persone sono economicamente impossibilitate perfino a curarsi, in cui si registra unāemergenza sociale dovuta a sicurezza e immigrazione, la preoccupazione piĆ¹ grande del Governo sia discutere e possibilmente approvare la legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento (Dat).
Pensavo fino a ieri che compiere un atto medico, sospendendo i trattamenti vitali, che avesse come conseguenza la morte di una persona anche se consenziente ed informata, si chiamasse eutanasia pur se omissiva; pensavo anche che la richiesta di essere aiutati nel morire, essendo impossibilitati a farlo perchĆ© affetti da grave invaliditĆ , si potesse chiamare suicidio assistito. Nel nome dellāautodeterminazione (diritto alla libertĆ di scelta), la differenza tra eutanasia, suicidio assistito, accanimento o sospensione delle cure non esiste piĆ¹. Sono diventati sinonimi sia in termini deontologici che professionali.
Qualora questa legge fosse approvata , chi coscientemente o non piĆ¹ in grado di rifiutare o sospendere la terapia perchĆ© affetto da malattia invalidante , attraverso Ā le Dat avrĆ diritto per mezzo di un medico tutelato dalla legge a mettere in atto queste sue volontĆ (il medico ĆØ tenuto a rispettare la volontĆ espressa dal paziente ed ĆØ esente da responsabilitĆ civile o penale). Queste problematiche inerenti il fine vita dibattute nei talk show da attori, politici, giornalisti, opinionisti, banalizzano le Dat e, in qualche modo, le riportano ad una gara tra sostenitori e contrari alla legge. Essi riducono la malattia, la vita, la dignitĆ della persona ad argomenti da trattare nei salotti televisivi piuttosto che a metterne in evidenza lāenorme significato etico e le condotte comportamentali, al momento inimmaginabili, che segnerebbero gli anni futuri della nostra societĆ .
Lāunica categoria che dovrebbe intervenire sullāargomento e con cognizione di causa, quella medica, compare marginalmente nel dibattito e raramente viene interpellata. La grande questione etica che emerge nella discussione sul fine vita puĆ² essere riassunta sinteticamente in queste tre brevi parole : Se, Come e Quando. Se Interrompere le cure, in che misura ed eventualmente quando interromperle. A questi quesiti, non esiste legge, non esiste autodeterminazione, non esistono Dat che possano rispondere. E questo per una ragione moltoĀ semplice e cioĆØ che lāunica figura in grado di capire Ā āSe, Come e Quandoā, ĆØ quella del medico. Si ĆØ dibattuto, spesso a sproposito, su termini quali autodeterminazione, accanimento terapeutico, abbandono terapeutico, ma chi, se non il medico, che conosce il paziente, la sua storia clinica, il suo vissuto, le sue fragilitĆ , la paura che ha della morte, puĆ² essere in grado di aiutare e capire il perchĆ© di un eventuale rifiuto della terapia?
Chi si preoccupa minimamente del āPerchĆ©ā, di quali siano le ragioni per cui un paziente puĆ² giungere ad una richiesta di tal genere? Forse perchĆ© ha dolore? Forse perchĆ© ha difficoltĆ respiratoria? Forse perchĆ© ĆØ trascurato dal suo medico curante? Ć sufficientemente seguito nella terapia palliativa ed assistito convenientemente dallāAdi (assistenza domiciliare integrata) nella sedazione del dolore, nella ventilazione con ossigenoterapia e con bronco-aspirazioni corrette e periodiche? Ć curata la sua igiene personale? Lo Stato ĆØ in grado di assicurare Ā lāassistenza necessaria ad un malato di Sla (sclerosi laterale amiotrofica) o dāaltra patologia invalidante o se ne occupa quasi esclusivamente la famiglia lĆ dove le condizioni economiche lo permettono? E qual ĆØ la linea di confine tra accanimento ed abbandono terapeutico? Chi lo stabilisce? Il malato, che nella maggior parte dei casi ĆØ depresso, angosciato sofferente ed obnubilato nel percepire il mondo esterno, il tutore o il familiare? O piuttosto tale decisione Ā deve essere valutata, come nei millenni di Ars Ippocratica, dal medico in un rapporto di collaborazione con il paziente? E ancora: lāidratazione deve essere considerata terapia o piuttosto sostegno vitale che aiuta ed accompagna il malato ad una morte piĆ¹ dignitosa? O al contrario bisogna sospendere ogni terapia e praticare una sedazione profonda che nella maggioranza dei casi, viste le condizioni estreme, prelude alla morte?
Per rispondere a tali quesiti, ĆØ necessario pertanto che tutti, a cominciare dal legislatore, facciano un passo indietro e lascino che nel rapporto medico paziente non ci siano terzi, ma che al contrario si ristabilisca quellāalleanza terapeutica che sola potrĆ accompagnare il paziente a morire con dignitĆ . Dovere del medico pertanto sarĆ quello di assistere il morente con unāadeguata terapia palliativa assicurandogli un sereno distacco dalla vita terrena, possibilmente circondato dallāaffetto dei suoi cari, attraverso unāadeguata idratazione, una corretta terapia del dolore, una idonea ventilazione e, da ultimo ma non ultimo, una accurata igiene della persona.
Stefano Ojetti – vicepresidente nazionale Associazione Medici Cattolici Italiani (Amci)