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Il ritorno dell’élite: le sfide del governo Draghi

Ho a lungo temuto negli ultimi anni di aver perduto il mio Paese, di non riconoscere più i miei concittadini, di non capire più come avessero potuto affidare le sorti dell’Italia a una combriccola di sovranpopulisti disposti a violare tutti i valori che hanno illuminato l’ormai lungo percorso della mia vita. Ho continuato a combattere la buona battaglia, ho conservato la fede; posso terminare la mia corsa e posso dire come il vecchio Simeone “nunc dimittis servum tuum domine“.

Dopo anni di scontri, polemiche, odio e invidia sociale combinati con un nazionalismo revanscista, con un identitarismo senza costrutto e con cenni di razzismo, non possiamo ancora dire che è scoppiata la pace, ma certamente il governo Draghi e l’ampia maggioranza che lo sostiene hanno aperto quanto meno un armistizio e promesso un impegno a lavorare insieme per portare il Paese fuori dalla crisi. Confesso che non avrei mai creduto possibile un esito siffatto, tanto da aver giudicato irresponsabile la mossa di Matteo Renzi e azzardato l’incarico conferito a Draghi da parte del Capo dello Stato.

In effetti era brutta l’aria che tirava tra jamais e veti incrociati tra le forze politiche chiamate a rispondere all’appello del Quirinale. Eppure l’operazione Draghi ha preso consistenza fin dal primo momento. E’ bastata un convocazione annunciata per il giorno dopo per far cantare i mercati finanziari e ridurre drasticamente lo spread. E queste sono cose che contano, perché i risultati non curano soltanto le finanze pubbliche già tanto provate, ma mettono in una condizione di maggior sicurezza il risparmio delle famiglie.

Il Paese cammina da anni sul filo del rasoio, tanto da far temere più volte che la situazione potesse precipitare. Si vede che lassù qualcuno ci ama, perché abbiamo avuto la dimostrazione che l’ora più buia è quella che anticipa l’aurora. Ci fermiamo qui per tornare alla realtà. Le sfide che ci attendono sono difficili e complesse anche per un esecutivo presieduto da Draghi. I cambiamenti – per ora consideriamo necessariamente solo quelli di ordine politico – sono della massima importanza.

Vediamoli in ordine. L’Italia, già laboratorio del sovranpopulismo e dell’antieuropeismo becero, oggi non si limita a consolidare la svolta europeista già iniziata dal governo Conte 2, ma si candida ad assumere un ruolo di guida della Comunità, in vista dell’uscita di una grande statista come Angela Merkel. Draghi è l’Europa, la stabilità, il libero commercio, l’euro, le relazioni internazionali. La sua squadra è composta da europeisti d’antan e di sinceri convertiti. Il suo governo rappresenta il ritorno al potere delle élite, la valorizzazione delle competenze, la forza del pensiero (ciò che da troppo tempo mancava), il fascino di una visione.

Ciò significa alzare la testa da una politica finora rimasta – per incapacità – ad usare le enormi risorse a disposizione per sopravvivere in cig da Covid-19, nella proroga del blocco dei licenziamenti e nella (inadeguata) sostituzione, con i ristori e i bonus, dei fatturati martoriati dalle chiusure delle attività economiche. Ma c’è un’altra novità rispetto a quanto è sempre accaduto in Italia: governare insieme tra forze da sempre ostili non elimina le differenze e non bandisce la lotta politica; si può realizzare tuttavia un processo di legittimazione reciproca che renda fisiologica l’alternanza al governo della Repubblica.

Senza scomodare la conventio ad excludendum nei confronti del Pci durante tutta la Prima Repubblica, perché legata a vicende di carattere internazionale, a pensarci bene anche l’opposizione a Berlusconi si basava su di una chiusura pregiudiziale da parte degli avversari. La stessa pregiudiziale negli ultimi anni si è ripetuta nei confronti di Matteo Salvini, tanto che l’operazione Conte 2 era tenuta insieme dal proposito esplicito di non consegnare al centrodestra una vittoria elettorale e di non affidare ad un nuovo Parlamento a maggioranza sovranista l’elezione del Capo dello Stato.

Questa linea di condotta è stata l’assillo del governo Conte 2 e della sua maggioranza e ha retto – al prezzo dell’immobilismo – fino alla crisi. Poi quando sembrava tutto perduto è arrivata la svolta di Salvini. Non ha senso chiedersi quale incontro abbia fatto sulla via di Damasco, né se la sua conversione è sincera o strumentale. In politica contano i fatti. E’ possibile che il leader della Lega si sia accorto che per governare in Italia è necessario andare a messa a Bruxelles.

Quando Salvini giustifica il nuovo corso affermando che il Carroccio è entrato nel governo Draghi per difendere meglio gli interessi dell’Italia si accontenta di una mezza verità. Certamente un governo autorevole potrà essere più ascoltato, ma il punto vero è un altro: gli interessi dell’Italia si difendono soltanto portando avanti il processo di integrazione dell’Unione. Il NGEU non è solo un’operazione di carattere finanziario-economico, ma soprattutto una grande balzo in avanti sul piano istituzionale e politico, perché quando in una comunità colui che tiene la cassa pretende, giustamente, di dire la sua su come e perché la quota delle risorse comuni assegnata ad un Paese viene impegnata e spesa, alla fine è lui che comanda.

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