Come si dice nella boxe, “fuori i secondi”. Finalmente arriva il momento della decisione. Francamente, non se ne poteva già più: la campagna per l’elezione del nuovo Capo dello Stato dura grossomodo da due mesi, il che è al contempo troppo e troppo poco. Troppo: è stata vissuta con l’ansia – come se li covid non fosse a sufficienza – dell’avvento di una sorta di giudizio universale. Troppo poco: due mesi non sono serviti pressoché a nulla, dal momento che nomi non ne sono emersi, e l’unico che è veramente venuto fuori è di chi non è interessato alla riconferma.
Attenzione, quindi, perché se una volta si diceva “affrettati lentamente” ora l’unica strada è quella di una lenta rapidità. L’idea di eleggere il nuovo Presidente al primo colpo, il 24, è suggestiva, ma non deve essere presa a metro di misura del funzionamento o meno della nostra democrazia. I precedenti parlano anche di 26 votazioni: sarebbe troppo, ma che si vada oltre la terza è fisiologico. Se accadesse, allora, nessuno gridi allo scandalo; per farsi un’opinione sulle cose, a volte, non c’è nulla di meglio di un sano insuccesso iniziale.
L’unico bilancio finora possibile resta quello dei due mesi di pretattica, e qui parlare di insuccesso è purtroppo doveroso. È andato in scena un gioco delle parti che ricorda la Notte degli Equivoci del Manzoni (che era degli Imbrogli, d’accordo: ma parlare di imbrogli ci farebbe apparire per lo meno populisti, e noi non lo siamo). Unico punto fermo: Mattarella è amatissimo, adattissimo al ruolo, disinteressatissimo alla rielezione; tutto il resto è stato un movimento incessante di acqua pestata nel mortaio.
Berlusconi ha tentato di riprendersi la leadership del centrodestra, invece ha dovuto registrare che i tempi non sono più quelli di una volta quando incoraggiava, controllava, alle brutte cacciava. Lega e Fratelli d’Italia sono uniti solo se c’è da ridimensionare Berlusconi. La coalizione nel suo insieme rischia di replicare la brutta figura delle ultime amministrative: erano vincitori sulla carta e per eccesso di sicurezza non si sono trovati d’accordo sui candidati. Risultato: cinque città perse, e che città. Il Movimento 5 Stelle ha dovuto certificare il proprio collasso, tra ricerca di un riparo paterno sotto l’ala della rielezione di Mattarella (loro, che ne volevano l’impeachment) e la presa d’atto di uno sfarinamento dei gruppi parlamentari. Un movimento non può agire da partito se dice di odiare la forma partito e non ha nemmeno un forte collante culturale al proprio interno. La Storia talvolta si trasforma, inevitabilmente, in Nemesi. Il centrosinistra ha tentato di sfruttare l’occasione per conglomerare il proprio alleato di turno.
Venti e passa anni fa accadde lo stesso con i Popolari, di cui nessuno ha più quasi memoria; questa volta sarebbe toccato ai grillini. Ma i grillini, per una volta, devono ringraziare la loro proteiforme mancanza di struttura ossea e carapace, che li ha messi al sicuro dalla fagocitazione. Intanto né gli uni, né gli altri hanno trovato la sintesi attorno a un nome. Mai accaduto prima, le conseguenze potrebbero farsi sentire nel tempo.
Infine c’è Draghi. Nessuno può escludere la sua elezione (come per Casini, per Casellati o Pera o Moratti o chiunque altro: troppo fluido, il quadro). Darla per certa, come in tutti gli altri casi citati, è però un altro paio di maniche. Il presidente del Consiglio piace a tutti, ma solo a corrente alternata: un giorno all’uno, un giorno all’altro, mai insieme a tutti quanti. Non è il miglior viatico per il Colle. Sì, uno ce ne sarebbe, che porterebbe a casa il risultato alla prima votazione. Ma non vuole. Chissà se riusciranno a fargli cambiare idea.