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Elemosina di cittadinanza

C’è una domanda intima che molti bravi cristiani si pongono e li spinge a tirarsi fuori dal confronto, dalla partecipazione. Se, cioè, si sia fallito l’obiettivo di rigenerare la democrazia per insufficienza personale, oppure perché si è finiti in un anfratto della storia nel quale per essa c’è poco spazio o, addirittura non ce n’è. Ed è una domanda che non può restare senza risposta.

Per certo se fossimo lucidi la troveremmo nel Vangelo, ma non lo siamo e dobbiamo farci aiutare. Io, che ho bisogno d’aiuto, trovo la risposta in un passo di don Primo Mazzolari (ciò che io non sono riuscito a trovare, altri lo potrà, e la mia ricerca creduta vana può servire di strada), che è l’essenza dello spirito di servizio cui deve ispirarsi e conformarsi il “diritto-dovere dei cittadini cattolici, come di tutti gli altri cittadini, di cercare sinceramente la verità e di promuovere e difendere con mezzi leciti le verità morali riguardanti la vita sociale, la libertà, il rispetto della vita e degli altri diritti della persona” ( Cito da Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica). Per molto tempo è stata ritenuta vana (e, da parte di chi ne ha interesse lo è ancora) la ricerca di rigenerare la democrazia proiettandola nella luce, salvaguardandola dai processi decisionali occulti, ancorandola alla Costituzione.

Il punto di svolta, non immune da contraddizioni e limiti, sotto questo profilo è stato rappresentato dal referendum costituzionale che ha aperto uno spazio di partecipazione diretta dei cittadini alle scelte politiche. Cosa si vuol dire, al fondo? Semplicemente, che gli italiani, fino a quando non è stato confezionato il pacchetto delle riforme costituzionali, ne hanno ignorato l’esistenza e gli scopi. Alla fine di tutto, le riforme costituzionali sono state presentate in un formato identificativo di tipo populistico (servono a ridurre i costi della politica, cioè un obiettivo che tutti si sarebbero aspettati che fosse raggiunto con leggi, regolamenti e comportamenti), mentre sotto la superficie delle norme restava confinata la verità di una sostanziale riduzione della rappresentanza democratica delle istituzioni (discorso complesso al quale non si deve porre alcun limite temporale, costituendo un dovere permanente di custodia e attuazione della Costituzione).

Dello stesso rango sociale delle nome costituzionali sono quelle che disciplinano i diritti e i doveri che debbono saldare permanentemente il conto della conformità alla Costituzione e debbono scaturire da processi politici e parlamentari partecipati ed in condizione continuativa di par condicio informativa. Per quanto sia banale ricordarlo, i processi di produzione del consenso passano per la loro illustrazione ai cittadini e influenzano in profondità i contenuti dispositivi delle norme e, se non sono soddisfatte le condizioni di base della legalità sostanziale, aprono uno spazio di conflitto tra rappresentanti e rappresentati (questi ultimi riassunti superbamente dalla intuizione di Rosanvallon secondo il quale l’opinione pubblica è dotata di una vera e propria “esistenza materiale”).

E’ questa una premessa, qui appena accennata, per affrontare un tema sul quale emozioni, disinformazione, interessi s’intrecciano e nascondono un tema che è coessenziale alla politica, convinti come siamo che “la struttura democratica su cui uno Stato moderno intende costruirsi sarebbe alquanto fragile se non ponesse come suo fondamento la centralità della persona. E’ il rispetto della persona, peraltro, a rendere possibile la partecipazione democratica”.

Mi riferisco al tema del reddito di cittadinanza. Nel tempo che viviamo è in corso una rivoluzione nel campo della produzione che ha il marchio della digitilizzazione. E’ la rivoluzione delle macchine che si trasforma da meccanica in elettronica. I risultati non sono diversi se non per ritmi di realizzazione e per dimensioni: e, quindi, il prezzo principale del cambiamento lo pagano quelli che nei processi di trasformazione (che non si possono fermare) restano indietro, per i più svariati motivi, vuoi perché vivono in aree geografiche marginali o perché sono mal rappresentati o perché non hanno livelli di educazione e di formazioni adeguati. Li accomuna il destino di essere considerati degli “scarti” della produzione.

Nel tempo della rivoluzione industriale, insieme ai grandi dolori delle emarginazioni, delle migrazioni, delle sofferenze e delle morti, e dell’indifferenza degli Stati, gradualmente si affacciarono e poi si irrobustirono forme di resistenza organizzata – partiti, sindacati, corpi intermedi sussidiari – e contrastarono e riequilibrarono gli squilibri degli effetti del cambiamento sulle persone, costruendo diritti e regole. La matrice unificante fu il lavoro e la sua difesa. Cito dalla Dsc, il lavoro, chiave essenziale di tutta la questione sociale, condiziona lo sviluppo non solo economico, ma anche culturale e morale delle persone, della famiglia, della società e dell’intero genere umano.

La contropartita del lavoro è la remunerazione. Si, ma quella più rilevante è la rilevanza sociale. E’ chiaro che il progresso tecnico è inarrestabile ma deve contenere nel proprio orizzonte la dimensione sociale della persona. Ora, se la rivoluzione digitale ne prescinde e derubrica la salvaguardia sociale previdenziale in assistenza, in elemosine pubbliche, è il momento di rivitalizzare il principio secondo il quale il lavoro, nella sua dimensione soggettiva rende vivente e perenne la dignità di essere persona del lavoratore.

Non vorrei mai che l’elemosina di cittadinanza nascondesse questo ragionamento e che qualcuno lo interpretasse politicamente: la rivoluzione digitale, la globalizzazione, la finanziarizzazione concretizzano quello che Stiglitz ha ben definito come “fondamentalismo del mercato”. Schiere di non scartati proteggono questo fondamentalismo con regolazioni appropriate, la prima delle quali è di non consentire, a qualunque costo, che si venga a capo della complessità della rivoluzione digitale con principi e regole di salvaguardia della persona, perché quei principi e quelle regole potrebbero ridurre la capacità di generazione e di accumulazione di profitti dei soggetti economici dominanti. In fondo, è molto più comodo, e si presenta bene agli occhi dell’opinione pubblica, e costa poco, pagare un po’ di assistenza agli scarti della produzione digitale, almeno per sostenere i loro consumi, piuttosto che realizzare un nuovo modello sociale globale, in cui resti al centro la persona, la persona del lavoratore.

Cerchiamo di non dimenticare che l’assistenza non è la regola, è la norma di chiusura degli ordinamenti sociali; vi si ricorre, la si offre per casi eccezionali. Certo non sostituisce il lavoro e la previdenza, e tutto questo nella luce dei principi costituzionali del nostro ordinamento giuridico.

Temo che sottostante l’elemosina di cittadinanza scorrano fiumi di cattiva cultura nei cosiddetti canali social e che non siano casuali le prospettazioni di modelli di vita che pongono in sottordine la dimensione dell’amor proprio rispetto a quella del consumo. Lascio ai sociologi il compito di isolare i modelli funzionali all’assistenzialismo di cittadinanza, per dire che è necessaria una politica con la p maiuscola, ma non la si trova disponibile, al momento né in Italia né, saltando altre dimensioni, nelle istituzioni della globalizzazione.

La sfida odierna non è quella di cercare per la difesa della persona una leadership solitaria e neppure di rinchiudersi nel privato sociale (che inevitabilmente diventerebbe privato assistenziale): la sfida è quella della trasparenza, è quella di prendere le spese dello Stato e dire come si intendono allocare e alla fine dire come si riducono le entrate e come si rientra dal debito pubblico. E dire che si intende costruire un’Europa dal basso, con l’approvazione di una Costituzione che sia figlia di un’assemblea costituente europea, alla quale dovranno applicarsi quei partiti europei che i trattati disegnano ma che sono tuttora lettera morta. E dire che i grandi trattati internazionali transatlantici o transpacifici siano figli di una trasparenza certificata, dall’apertura dei loro processi di formazione al vaglio delle opinioni pubbliche del mondo intero. Noi invochiamo una trasparenza totale che sia delle istituzioni pubbliche nazionali ed internazionali e dei soggetti economici privati, allo stesso titolo e allo stesso modo. Se si tratta di avviare un processo politico con p maiuscole, questo processo lo si deve servire.

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