L’11 settembre resta una memoria indelebile. Impossibile cancellare le immagini dell’aereo che entra nelle Twin Tower, delle fiamme che si sprigionano, dei voli interminabili di chi si getta dall’alto… Il messaggio che viene da questa memoria è troppo grave perché possa essere dimenticato, quella atrocità è stata troppo grande perché si possa sopportare una sua ripetizione, sarebbe assurdo se l’archiviassimo con indifferenza. Ma anche gli eventi straordinari hanno legami con l’ordinario, anche quell’azione incredibile che ha ferito a morte New York, i suoi abitanti, il mondo intero ha avuto cause ed effetti che si collegano alla nostra vita di ogni giorno. Perché una simile tragedia resti un unicum isolato nel tempo è necessario recidere ogni legame tra quell’evento straordinario e la nostra vita ordinario.
Molti di questi legami passano per la parola guerra. Secondo le definizioni del diritto internazionale, l’attentato delle Twin Towers non è stato un atto di guerra. La guerra infatti implica uno scontro tra due stati nazionali, che lo devono gestire come un evento grave ma straordinario, perché interrompe ciò che deve costituire l’ordinarietà dei rapporti internazionali e cioè la pace. Come qualcosa quindi che deve perciò essere circoscritto nel tempo e nello spazio e sottoposto quantomeno ad alcune regole fondamentali accettate da tutti.
Ma chi ha perpetrato quella strage l’ha chiamato atto di guerra, una guerra di tipo nuovo: una guerra asimmetrica, tra un’organizzazione terroristica e il più grande stato del mondo, fuori da ogni regola e da ogni pietas. Nel tempo, però, anche noi, che ci sentiamo e vogliamo essere dalla parte delle vittime, abbiamo finito per pensare al terrorismo come una guerra e comportarci come se fosse una guerra.
La confusione che si è creata non è meramente linguistica, ma investe principi e regole della convivenza umana. Ha significato dare ai terroristi, inconsapevolmente, una consistenza e una dignità che non hanno: il terrorismo non è un soggetto definito, non è uno stato, non rappresenta una società o un gruppo umano, è solo una pratica illegittima e criminale che abbina politica e violenza, sulla cui radicale separazione sono nati gli stati moderni. E’ iniziato così uno scivolamento verso la logica dei terroristi, ad esempio con l’uso della tortura o della detenzione illegale per i sospetti, qualcosa che uno stato di diritto non può e non deve mai fare.
L’equivoco della “guerra” ha inoltre spinto gli Stati Uniti e i loro alleati a cercare un soggetto politico-istituzionale da combattere. Sono iniziate guerre “tradizionali” che hanno finito per annientare il poco di stato – e cioè di diritti, leggi, legalità ecc. – che c’era in Iraq o in Afghanistan: hanno finito, cioè, per favorire il terrorismo. Ed è cominciata un’azione distruttiva, incontrollata e incontrollabile, che ha aperto la strada all’ Isis e ha dato inizio in Siria ad una violenza ininterrotta che dura ancora oggi.
Anche l’attuale crisi del Libano e l’incendio nel campo di Moira a Lesbo hanno a che fare con questa storia. Forse, persino lo smarrimento che sembra essersi impadronito della società americana. La violenza è uscita dal vaso di Pandora rappresentato dalla parola guerra e che in quale modo la limitava. E abbiamo fatto tutti l’abitudine ad entrambe. La confusione tra guerra e terrorismo ha infatti aperto la strada ad una strana indifferenza tra violenza e pace: facciamo oggi molta più fatica a considerare la prima qualcosa di straordinario che non deve avere nulla a che fare il tessuto ordinario della nostra vita quotidiana.
Riflettere su questi sviluppi non significa rovesciare le parti e scambiare le vittime con i colpevoli. A distanza di quasi vent’anni, però, è bene tornare all’11 settembre 2001 e alle 2974 persone, oltre i diciannove dirottatori, che sono morte quel giorno. I loro volti ci comunicano una richiesta di protezione, anche se non per loro o per altri che sono morti in attentati analoghi: purtroppo non è più possibile dargliela. Ma è possibile per quanti possono trovarsi nella loro situazione. Se siamo critici verso gli occidentali – e cioè verso noi stessi – non è perché le colpe di altri non siano ben più grandi e visibili: ci sono stati che praticano e sostengono esplicitamente il terrorismo. Ma perché ci aspettiamo che il nostro mondo tenga alta la fiaccola di una convivenza pacifica, capace di garantire i più deboli e assicurare i diritti fondamentali di tutti.
Dal 2001 abbiamo assistito un progressivo smantellamento di un ordine internazionale che, pur con tutti i suoi limiti, dalla fine della Seconda guerra mondiale aveva complessivamente fatto avanzare la causa della pace nel mondo. E’ necessario riprendere quel cammino.