La pandemia COVID-19 si sta, seppur lentamente, esaurendo in tutto il mondo e questa tendenza viene, per così dire, certificata dall’ultimo rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che, a livello globale, ha registrato negli ultimi 28 giorni, dal 9 gennaio al 5 febbraio 2023, quasi 10,5 milioni di nuove infezioni da COVID-19 ed oltre 90.000 decessi, con un calo rispettivamente dell’89% e dell’8% rispetto ai 28 giorni precedenti. Questa riduzione è presente in tutte le regioni del mondo, pur con qualche differenza soprattutto per quel che attiene la mortalità, anche se si sa ormai da tempo che il numero dei decessi è l’ultimo parametro a decrescere in presenza della diminuzione dei contagi.
Questa nuova situazione epidemiologica è stata ben analizzata in un articolo (Wafaa M. El-Sadr e altri) che prevede che in futuro il virus SARS-CoV-2 rimarrà tra di noi, causando probabilmente ancora contagi in molte persone, anche se certamente la fase peggiore è ormai alle nostre spalle. Per questo motivo, viene sottolineata la necessità di evitare l’utilizzo, da parte degli esperti, di un linguaggio allarmista senza però cadere in facili trionfalismi, sottovalutando la continua circolazione del virus e nel contempo offrire soluzioni valide e fattibili per abituare le persone a vivere questa nuova fase non emergenziale. L’ultima più recente recrudescenza epidemica di SARS-CoV-2 ha coinvolto soprattutto la Cina. In uno studio (Pan Y. e altri) si sono caratterizzate le varianti di SARS-CoV-2 circolanti a Pechino nell’ultimo periodo del 2022, effettuando l’analisi epidemiologica e filo-genetica dei virus isolati. È emerso che la co-circolazione delle varianti BF.7 e BA.5.2 ha caratterizzato fin dal 14 novembre 2022, l’epidemia a Pechino e che non c’è stata alcuna evidenza che siano emerse nuove varianti. Questa ricerca, per quanto effettuata nella sola Pechino, rappresenta probabilmente un’istantanea di ciò che è avvenuto in Cina, dal momento che in questa megalopoli c’è un frequente scambio di popolazione con il resto del paese ed i ceppi circolanti presentano di per sè un’elevata trasmissibilità.
In tutto il mondo le problematiche economiche hanno seguito in questi tre anni di pari passo l’evoluzione della pandemia COVID-19. Uno studio condotto in Bangladesh (Md Ruhul Amin e altri), paese nel quale sono state messe in atto una serie di misure preventive, in parte restrittive ed in parte di apertura, ha evidenziato la presenza di ampie fluttuazioni dei prezzi dei prodotti avicoli (carne e uova). L’analisi, condotta in un’area di allevamento intensivo di pollame, ha dimostrato come ci sia stato un forte impatto della pandemia COVID-19 sui prezzi dei prodotti in questione, con un aumento che in alcuni momenti è stato del 40% per la carne di pollo e del 30% per le uova. Da questa isolata esperienza, che ha peraltro trovato ospitalità in una prestigiosa rivista, emerge la necessità di fornire un sostegno finanziario soprattutto ai piccoli coltivatori ed allevatori, per migliorare la loro resilienza a situazioni di shock come la pandemia COVID-19 ed i disastri naturali. La corretta e precoce diagnostica dell’infezione da SARS-CoV-2 riveste una grande importanza in termini di sanità pubblica, dal momento che la rapida comparsa di nuove varianti di SARS-CoV-2 pone la costante sfida ad aggiornare i test, perché questi siano in grado di identificare anche queste varianti. In uno studio (Supaporn Wacharapluesadee e altri) viene presentato un nuovo test diagnostico che dimostra di possedere una maggiore sensibilità rispetto ai precedenti ed inoltre è molto flessibile dal momento che, se necessario, consente di operare una serie di modifiche, così da identificare anche le nuove varianti.
La capacità di protezione nei confronti della sotto variante Omicron BA.2.75, è stata analizzata in Quatar, studiando l’effetto di una precedente infezione da SARS-CoV-2 sulla reinfezione (Chemaitelly H e altri). Dai risultati è emerso che una precedente infezione con una variante pre-Omicron conferisce una trascurabile protezione, confermando così che in questi casi l’immunità post-infezione non dura più di un anno. La protezione conferita da una precedente infezione con una variante Omicron risulta essere migliore e pari al 50%, quando la precedente infezione era dovuta alle sotto varianti BA.1 e BA.2 e dell’80% quando l’infezione era più recente, cioè causata dalla variante BA.4 e BA.5. Nel caso poi di un’infezione combinata pre-Omicron ed Omicron, questa conferiva una maggiore protezione nei confronti dell’infezione BA.2.75.
La protezione conferita dalle immunoglobuline di classe IgA dirette contro SARS-COV-2 presenti sulla mucosa, è stato oggetto di uno studio (Marking U e altri) da cui è emerso che questa ha una durata fino a 7-8 mesi. Questo risultato indica il ruolo chiave svolto dall’immunità locale che è presente sulle mucose delle prime vie aeree ed indirettamente sottolinea l’importanza che potrà avere una vaccinazione effettuata utilizzando un vaccino nasale e/o orale in grado di indurre una risposta di questo tipo. Un interessante studio (Cassandra Willyard) ha analizzato criticamente i risultati di diverse ricerche che sono state tutte focalizzate sulla durata dell’immunità anti COVID-19. È interessante notare come su questo aspetto ci siano evidenti differenze tra l’attuale era Omicron rispetto alle precedenti ondate causate dalle varianti pre-Omicron. Inoltre, la crescente percentuale di immunità ibrida a livello globale ed il sempre crescente il numero di persone protette dal vaccino, se combinate insieme, saranno in grado di influenzare i tempi di sviluppo ed i picchi di infezione, anche se al momento non è ancora chiaro in che maniera.
Un possibile futuro scenario epidemiologico quindi potrebbe ricalcare quello ben noto dell’influenza: con la necessità di sottoporre a frequenti richiami solo le persone ad alto rischio di sviluppare forme gravi di COVID-19, mentre gli individui più giovani, senza fattori di rischio, potrebbero di per sé avere una protezione significativa, tale da non richiedere ulteriori richiami. Una recente ricerca (Satoshi Mizuta e altri) ha ripreso una tematica che all’inizio della pandemia è stata oggetto di numerosi studi: si tratta del ruolo dei derivati della clorochina nel trattamento dell’infezione da SARS-CoV-2. Questo nuovo studio, condotto in vitro, ha analizzato l’effetto su SARS-CoV-2 di diversi derivati della clorochina ed è risultato che alcuni di questi, oltre ad avere una efficacia nei confronti del Plasmodium falciparum, responsabile della malaria grave, hanno anche una certa efficacia sul virus responsabile di COVID-19. Naturalmente questi risultati, anche se sono di per sé interessanti, non dovrebbero trovare almeno al momento, alcuna applicazione nel trattamento di COVID-19.
Lo studio italiano TREASURE (Brambilla M. e altri), che ha coinvolto 368 soggetti, 161 dei quali vaccinati con vaccini a vettore adenovirale (AstraZeneca o Janssen) e 207 con vaccino a mRNA (Pfizer o Moderna), ha dimostrato che i quattro vaccini anti-COVID-19 inducono una transitoria risposta infiammatoria, senza che questa si traduca in una significativa attivazione piastrinica. Modeste alterazioni dell’attivazione della coagulazione e della funzione endoteliale a livello dei vasi sanguigni, potrebbero essere responsabili a livello di popolazione generale delle rarissime complicanze tromboemboliche osservate dopo la vaccinazione. Il trattamento precoce di oltre 933 pazienti ambulatoriali COVID-19, in prevalenza vaccinati, trattati con una singola dose di interferone, ha mostrato che l’incidenza di ospedalizzazione ed accesso al Pronto Soccorso era significativamente minore nei pazienti trattati, rispetto a quelli non trattati (Reis G. e altri). Questo risultato, se confermato da ulteriori studi a più alta numerosità, potrebbe aprire le strade all’uso dell’interferone nella terapia, il cui impiego, tra l’altro, sarebbe anche motivato da un deficit di produzione di questa molecola nei pazienti COVID-19, più volte descritto in questi anni. Una ricerca condotta in 50 pazienti, trattati con molnupiravir (Najjar-Debbiny R. e altri), ha dimostrato che l’assunzione di questo farmaco antivirale riduce in maniera significativa il rischio di COVID-19 grave e la mortalità, specie nei pazienti più anziani e nei soggetti non adeguatamente protetti dalla vaccinazione. Uno studio, condotto tra il maggio 2021 e l’aprile 2022, ha riguardato 75 bambini di età inferiore a 18 anni affetti da sindrome multi-sistemica infiammatoria associata a SARS-CoV-2, di cui 37 trattati con un cortisonico (metil-prednisolone) e 38 con immunoglobuline endovena (Welzel T. e altri). È emerso dai risultati che il trattamento con cortisone nei bambini non ha influenzato in maniera significativa la durata della degenza ospedaliera rispetto alle immunoglobuline, anche se il metilprednisolone potrebbe essere comunque considerato un trattamento di prima linea di questi pazienti. Da più parti si è sottolineato che l’uso frequente di antibiotici nei pazienti COVID-19, così come avvenuto in questi tre anni di pandemia, rappresenta una minaccia che può incrementare la resistenza antibiotica dei batteri, che già di per sé è una seria problematica di sanità pubblica.