La pandemia COVID-19 ha impattato negativamente su varie componenti, non ultima, l’aspettativa di vita della popolazione generale. Questo risulta chiaro dai dati finali statunitensi sulla mortalità osservata nel 2021. Infatti, nel periodo 2020-2021, l’aspettativa di vita negli Stati Uniti è passata da 77 anni a 76,4 anni (Bridget M. Kuehn) e questa riduzione è senz’altro ascrivibile in maniera preponderante alla pandemia COVID-19. La diminuzione dell’aspettativa di vita è risultata essere differente a seconda del gruppo etnico coinvolto e del sesso, dal momento che i maschi presentano una maggiore riduzione, rispetto alle femmine.
In uno studio di coorte (Hao Luo e altri) sono stati identificati circa 850.000 soggetti con diagnosi di demenza identificati nei data base di: Francia, Germania, Italia, Corea del Sud, Regno Unito e Stati Uniti. I pazienti con demenza sono stati valutati per i tassi di prescrizione di farmaci antipsicotici, mettendo a confronto il periodo pre-pandemico con quello pandemico. È risultato che la percentuale di prescrizione dei farmaci antipsicotici alle persone con demenza, è aumentata nei primi mesi della pandemia in tutti e 6 i paesi studiati e questa non è diminuita ai livelli pre-pandemici dopo la fine della prima fase acuta della pandemia. Questo risultato suggerisce che la pandemia ha interrotto la cura delle persone che vivono con demenza ed è quindi necessario sviluppare strategie di intervento alternative al fine di garantire la qualità delle cure di questi pazienti. Cosa sappiamo del COVID-19 è stato oggetto di una straordinaria ricerca scientifica, sia di base che clinica, che si è tradotta nell’arco di soli tre anni in un numero significativo di pubblicazioni che alla data del 6 febbraio 2023 assommano a 335.871, così come si evince dal sito Pubmed della National Library of Medicine statunitense. Per comprendere meglio questo fenomeno, è stato effettuato su 5013 manoscritti inviati ad una rivista medica di tipo generalistico ad accesso aperto, una valutazione (Perlis R.H. e altri) su come è cambiata la revisione (peer review) prima e durante la pandemia COVID-19. Mettendo a confronto il periodo pre-pandemico con quello pandemico, le revisioni dei manoscritti valutati essere di alta qualità (molto buona o eccellente) sono aumentate leggermente ed i tempi medi di revisione sono risultati più bassi, il che indica che, almeno nell’anno iniziale della pandemia, c’è stato un miglioramento per quel che attiene la revisione dei manoscritti che ha sicuramente favorito la pubblicazione e la diffusione delle ricerche.
Sempre sullo stesso argomento, si segnala una revisione sistematica di confronto tra gli studi clinici randomizzati su COVID-19 apparsi come pre-print nelle piattaforma e quindi privi di revisione ed i corrispondenti articoli apparsi nelle riviste (Bai A.D. e altri). Da questa ricerca è emerso che dei 152 pre-print, 119 di essi sono successivamente apparsi in una rivista scientifica e confrontando i risultati iniziali con quelli pubblicati definitivamente non sono emerse particolari differenze, tanto che le conclusioni degli studi sono rimaste coerenti con quelle precedentemente indicate. Questo risultato fornisce un’indiretta conferma della grande utilità svolta dalle piattaforme nel corso della pandemia COVID-19, dal momento che hanno veicolato, in modo rapido, la diffusione di importanti risultati scientifici non solo tra gli addetti ai lavori ma anche, attraverso i media, nell’opinione pubblica. In questi ultimi giorni, alla luce di una generale riduzione dei contagi avvenuta non solo in Italia ed in Europa, ma praticamente in tutto il mondo, Cina compresa, si sta sempre più facendo strada l’idea che la pandemia, almeno come l’abbiamo conosciuta in questi ultimi 3 anni, sia passata e che ci stiamo avviando, se già non ci siamo, ad una fase endemica in cui il virus SARS-CoV-2, anche se non scomparso, non causerà probabilmente più forme gravi.
Si prospetta quindi per il futuro un possibile susseguirsi di piccole/medie riaccensioni epidemiche, spesso localizzate in specifiche aree geografiche e sostenute spesso dalla comparsa di nuove varianti. Alla base di questo possibile futuro scenario, ci sono alcuni elementi rappresentati: dalla protezione conferita dal vaccino, dall’immunità naturale, dal mix di entrambi (immunità ibrida), ma anche dalla presenza di sotto varianti che da più di un anno derivano tutte da Omicron e che si caratterizzano per una maggiore trasmissibilità, ma per una minore gravità. Infatti, alla luce dell’attuale situazione epidemiologica, il cosiddetto sciame di Omicron produce sempre nuove varianti, alcune delle quali ricombinanti, cioè frutto di un legame genico tra due varianti, ma che come compaiono, altrettanto rapidamente scompaiono. Per questo motivo, come è stato da più parti autorevolmente prospettato, è possibile prevedere, almeno nel prossimo futuro, una vaccinazione di tipo annuale, nè più nè meno come si fa per l’influenza, per mantenere viva l’immunità nei confronti di SARS-CoV-2, specie nei soggetti fragili per età, patologie sottostanti ed immunodepressi.
Le mutazioni che avvengono nella componente spike delle sotto varianti di Omicron BA.1 e BA.2, compromettono la funzione di queste che si traduce, in alcuni casi, in una riduzione ed in altri in un miglioramento. In particolare, le mutazioni che sono tipiche di Omicron e che avvengono in due specifiche regioni dello spike (NTD e RBD, quest’ultimo recettore del virus per entrare nelle cellule), sono in grado di ridurre la capacità neutralizzante esercitata dai monoclonali che sono ampiamente utilizzati in terapia ed in particolare di bamlanivimab e imdevimab, il che pone importanti problemi per il trattamento clinico dei malati COVID-19 (Pastorino C. e altri). Per quanto attiene gli aspetti di epidemiologia generale, si segnala un’interessante pubblicazione redatta in forma di nota tecnica dall’Istituto Superiore di Sanità, sull’impatto della vaccinazione e della pregressa diagnosi sul rischio di infezione di malattia grave associata a SARS-CoV-2, ottenuta analizzando i casi diagnosticati in Italia nel mese di ottobre 2022 (Sacco C. e altri).
In particolare, risulta che la massima protezione, sia nei confronti dell’infezione che della malattia grave, si acquisisce con l’immunità ibrida (vaccinazione più pregressa infezione) e che il rischio maggiore di forme gravi di malattia si osserva tra le persone che non sono vaccinate e/o che non hanno avuto una pregressa infezione. In tutti i casi comunque, la riduzione del rischio di malattia grave si associa in maniera significativa alla vaccinazione, specie se questa è stata praticata di recente. Partendo dall’osservazione che i pazienti con malattia infiammatoria intestinale in trattamento con farmaci biologici hanno una minore risposta nei confronti dei vaccini, è stato analizzato il microbiota intestinale, acquisendo sia campioni di feci che di siero di 43 pazienti affetti da questa forma morbosa in trattamento e vaccinati o con vaccino a vettore adenovirale (AstraZeneca) o a mRNA (Pfizer) (Alexander J.L. e altri). Dai risultati emerge chiaramente che esiste un’associazione tra il microbiota intestinale e la produzione di anticorpi dopo la vaccinazione e questa alterata risposta può essere migliorata se i pazienti trattati con farmaci biologici ricevono metaboliti microbici.