C’è un denominatore comune nella vicenda del virus che ha flagellato il mondo in questo scorcio di nuovo anno? Molti pensano di sì: fioccano sui social ipotesi complottiste, enunciazioni di rivoluzione da parte dei grandi poteri, criminali giochi di interessi per rafforzare la dominazione e così via, tutti conditi da scetticismo sulla effettiva portata della pandemia piuttosto che da causazione dolosa. Al lato opposto, paure diffuse, sacrifici di vite umane e di lavoratori impegnati allo stremo, propaganda incessante del restare a casa in attesa che passi, mentre l’economia (non solo nazionale ma) familiare, personale, individuale supera la soglia della criticità.
La grande capacità umana di adattamento, solitamente italiana ma ora, sembra, diffusa anche tra gli altri popoli, sta trovando e mostrando i lati positivi di questo isolamento: maggiore attenzione alla famiglia, ai rapporti non effimeri, alle riflessioni, agli approfondimenti culturali; si assiste anche alla riconversione di attività nel nuovo modello fruibile a distanza con un’impennata dei rapporti telematici.
Si può dire che c’è coesione tra gli appartenenti ai due gruppi, che si riscoprono sodali e affiatati nelle critiche al generico sistema di potere quanto nella esaltazione della grande italianità.
Ma sembra utile andare oltre la descrizione di quello che tutti oggi vedono: proviamo ad immaginare domani. Ho sentito dire che non si ritornerà indietro: ci sarà un prima e un dopo. Ne sono convinto. Avremo perso sicuramente in termini di liberismo: lo Stato ha mostrato in appena un mese di essere in grado di produrre una quantità smisurata di norme con relative eccezioni e distinguo, precisazioni, condizioni e presupposti del tutto inadeguate ad una criticità – reale o indotta che sia – che avrebbe meritato ben altro approccio, a cominciare dall’unità di crisi, presieduta dalle autorità scientifiche in ossequio alla competenza di materia, per estendere a tutti i rappresentanti la partecipazione non solo alla gestione della emergenza ma anche alla ripartizione delle risorse secondo criteri di effettiva esigenza.
Se lo Stato (politico) si è imposto piuttosto che lasciare il campo alla comunità scientifica, difficilmente farà un passo indietro rispetto ai poteri operativi conquistati con la decretazione di urgenza. Avremo più Stato.
Potrebbe non essere un male per coloro che pensano alla funzione sociale dello Stato, ove in grado di redistribuire ricchezza, bilanciare le opportunità, compensare le diseguaglianze secondo i dettami della carta costituzionale del ’48, magari riallineandone le disfunzioni che si sono verificate dopo il logorio della prova dei fatti: una fra tante, immediata, obbliga di ripensare al bilanciamento dei controlli dopo che le forze politiche hanno imparato la monopolizzazione delle nomine.
Lo Stato azienda non ha mostrato i suoi frutti: oggi più che mai si sono rese evidenti le critiche ai tagli nei settori essenziali in nome di un risultato di bilancio imposto dall’Europa della finanza; è bene andare allora nella direzione dello Stato sociale, indispensabile casa di tutti, ma con correttivi e modifiche di sicuro impatto sulle attuali disfunzioni constatate negli ultimi decenni: meno vincoli finanziari, meno burocrazia superflua, meno nomine politiche, meno terrorismo mediatico, meno invasioni di campo tra i poteri a fronte di un maggiore impegno nell’effettiva redistribuzione della ricchezza, maggiore attenzione agli esclusi, maggiori effettive opportunità, valorizzazione degli scambi non solo economici ma anche culturali ed artistici. Da tempo si ripete che la tecnica ha soppiantato la scienza, che la finanza ha sostituito l’economia, che l’opinione ha smarcato la giustizia: sembra sia giunta l’occasione di rimodellare lo Stato sociale, ed in Italia abbiamo nella Chiesa cattolica una risorsa inesauribile di supporto, che nell’ultimo secolo ha dettato le regole di una dottrina sociale di ampio respiro e di autorevole efficacia che potrebbero essere utilmente rielaborate in senso laico.