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I due fattori che condizionano l’azione di Biden in Ucraina

Il conflitto s’allunga e non se ne intravede la fine; l’invasione dell’Ucraina entra in una nuova fase; l’offensiva russa si concentra su un arco di territorio ucraino che va da Kharkiv a Odessa, un fronte di circa 500 chilometri la cui occupazione trasformerebbe il Mare d’Azov in un lago russo. E l’atteggiamento dell’Occidente continua a essere condizionato da due fattori fra di loro contrastanti: c’è la “sindrome di Chamberlain e Daladier”, cioè la preoccupazione di essere troppo acquiescenti alle mire e alle mene di Vladimir Putin; e c’è la consapevolezza che l’allargamento del conflitto significherebbe una terza guerra mondiale, con l’incubo dell’apocalisse nucleare.

Questo dualismo caratterizza anche, e forse soprattutto, le posizioni dal presidente Usa Joe Biden, su cui, però, pesano pure altri due fattori interni: la volontà di mostrare fermezza e quasi rigidità verso Russia e Cina, per non apparire debole, e il desiderio di recuperare consenso nell’Unione, dopo la disfatta afghana dell’estate scorsa – i sondaggi, però, non lo confortano in tal senso -. Giovedì sera, parlando nell’Oregon, Biden ha avuto parole aspre sia per la Russia – “Putin pensava di distruggere la Nato” – che per la Cina – il presidente Xi Jinping “non ha un briciolo di democrazia in sé” -.

Neville Chamberlain ed Édouard Daladier erano i capi del governo di Gran Bretagna e Francia che, nel 1938, alla conferenza di Monaco coi leader tedesco e italiano Adolf Hitler e Benito Mussolini, cedettero alle ambizioni di annessione dei Sudeti del Führer, senza neppure coinvolgere l’alleata Cecoslovacchia. Volevano evitare il conflitto: lo rinviarono solo di un anno, dando però il destro alla Germania nazista di meglio prepararsi e, quindi, di rendere la guerra più lunga e più letale.

Oggi, l’Occidente non vuole essere arrendevole di fronte alla prepotenza russa, come fece nel ’38 con Hitler: non concede a Putin la Crimea e il Donbass, che sono l’equivalente dei Sudeti, e, scattata l’invasione, arma Kiev e colpisce con sanzioni Mosca; ma, nel contempo, non vuole rischiare di allargare il conflitto ed esclude di intervenire in modo diretto, con propri mezzi e uomini sul terreno, mentre il presidente ucraino Volodymyr Zelensky insiste nel chiedere più armi e più aiuti.

Ma se la priorità, in questo momento, è la fine della guerra, o almeno la cessazione delle ostilità, una tregua negoziale, le scelte dell’Occidente lasciano perplessi: gli Usa, la Nato, l’Ue aumentano le frizioni con Mosca, invece di ingaggiarla nel negoziato, e lasciano spazio a mediatori che si fanno spontaneamente avanti – specie il turco Recep Tayyip Erdogan –. E’ assente e silente l’Onu, il cui segretario generale Antonio Guterres si limita a chiedere una tregua pasquale, senza essere ascoltato e senza fare nulla per innescare una trattativa.

L’arma delle sanzioni è spuntata, perché gli europei non sono pronti a colpire la Russia nell’energia – Germania, Italia e altri Paesi dipendono in modo sostanziale dal gas russo – ed è un boomerang, che rischia di stordire anche chi l’ha lanciato. Inoltre, in questa fase, una tattica da “divide et impera” poteva evitare di riavvicinare Mosca e Pechino e di quasi cementare la loro cooperazione.

L’anello labile della riflessione occidentale sono, in questo momento, gli Usa di Biden. In missione in Europa per una trilogia di Vertici senza pari nella storia, Nato, G7 e Ue lo stesso giorno, giovedì 24 marzo, nello stesso luogo, Bruxelles, Biden si compiace di constatare che l’Occidente è più forte e più unito che mai e dice che “questa guerra è già un fallimento strategico per la Russia”.

Ma poi afferma che “Putin non può restare al potere” e fa sprofondare le relazioni russo-americane al punto più basso di tutta la Guerra Fredda – nessun presidente Usa lo aveva mai detto di Stalin o Brezhnev – e suscita un corso di critiche e distinguo – neppure Donald Trump veniva corretto così platealmente da alleati e collaboratori -. A Biden, su Putin scivola spesso la frizione lessicale: assassino, criminale di guerra, dittatore, macellaio, alcuni degli epiteti appioppati al leader russo, con cui, se vuole la pace, l’Occidente dovrebbe negoziare; e dopo aver evocato il cambio di regime, il presidente Usa ha pure definito genocidio quanto avviene in Ucraina – i giuristi internazionali non concordano -.

L’inasprimento dei rapporti tra Mosca e Washington non blocca i negoziati tra Russia e Ucraina, ma certo non li stimola e ne lascia l’Occidente ai margini: spettatore più che protagonista. Se dietro c’è il disegno di indebolire la Russia, infliggendole uno smacco militare, il rischio è di rendere la crisi più pericolosa e di allungare, se non allargare, il conflitto. Aumentando le perdite umane.

Giampiero Gramaglia: