Un giorno e mezzo di riposo nella sua villa in Umbria. Un ritiro sobrio e riservato, perfettamente aderente al suo stile. Del resto Mario Draghi, presidente del Consiglio incaricato di formare il nuovo governo dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, è quanto di più lontano da quel mondo dei social cosi freneticamente frequentato, e usato, dal suo predecessore, Giuseppe Conte.
Anche il cambio di scena conta in questa partita. Che riprende oggi, lunedì 8 febbraio, con il secondo giro delle consultazioni. L’obiettivo resta quello d’incastrare tutti i tasselli di una nuova allargatissima maggioranza (dal Pd e Leu fino all’inaspettata Lega, dal M5s a Forza Italia), salire al Quirinale con il puzzle finito e sciogliere la riserva dell’incarico ricevuto il 3 febbraio. Al presidente Mattarella, Draghi potrebbe riferire già mercoledì o, addirittura, la sera prima, dopo i colloqui con i partiti. Nella migliore delle scalette possibili, il successore di Conte e la sua squadra potrebbero giurare entro venerdì.
L’incaricato, comunque, vorrebbe anche confrontarsi con le parti sociali. Un dialogo molto atteso, quello con il premier in pectore, da imprese e sindacati, anticipato da Draghi subito dopo aver ricevuto il mandato dal Colle ma per ora senza convocazione ufficiale. Tanto da far pensare che sindacati, imprese e categorie potrebbero essere chiamate formalmente a governo fatto, direttamente a Palazzo Chigi. Irrituale ma non impossibile.
Certo è, invece, il calendario delle consultazioni politiche. Lunedi pomeriggio tocca ai partiti piccoli: si parte con il gruppo Misto della Camera per passare alle Autonomie (in mezzo, il Movimento italiani all’estero, Azione, +Europa, i radicali, Noi con l’Italia, Cambiamo, Centro democratico). Martedì giornata densa. I primi a sedersi di nuovo al tavolo con Draghi saranno i cosiddetti ‘responsabili’, il gruppo di Europeisti-Maie-Centro democratico nato al Senato dopo le dimissioni di Conte. Poi Leu, Italia viva, Fratelli d’Italia, Pd, Forza Italia, Lega e M5s.
A quel punto il quadro potrebbe essere chiaro per far scattare la sintesi del super banchiere, mentre la fiducia del Parlamento potrebbe anche arrivare la settimana successiva, dopo il 14 febbraio. In ogni caso, secondo la prassi dell’alternanza, il primo voto dovrebbe essere al Senato. Ma dovrebbe decidere la conferenza dei capigruppo, in base anche a valutazioni politiche. Sin qui l’agenda, secondaria all’apparenza, ma tecnicamente rilevante sotto il profilo delle procedure.
Dai colloqui si capirà subito come andranno a finire le cose. Perché sul tavolo, al momento, il vero elemento di discussione è rappresentato dalla dialettica a distanza fra Lega e Pd, incentrata sul ruolo dell’Unione europea. “Salvini ha dato ragione al Pd”, ha sostenuto ieri il segretario dei dem, Nicola Zingaretti, intervistato da Lucia Annunziata a “In Mezz’Ora in Più”, tentando di spiegare le posizioni inedite assunte dalla Lega nelle ultime ore. D’altra parte, osserva, “tutti possono riconoscere che l’idea di superare i problemi distruggendo l’Europa era fallimentare”.
Una cosa è certa: la fase è “del tutto nuova” e andrà gestita al meglio. Su questo Zingaretti ha perfettamente ragione. La curva della storia che stiamo affrontando non ammette errori. Ma un problema c’è, ed è quello della stabilità della maggioranza: “Il tema non è solo o tanto del Pd, ma è della credibilità dell’operazione politica”, osserva il governatore del Lazio. I dem, assicura, non si sono mai scostati dalle proprie posizioni e sono “assolutamente” uniti nelle idee con Draghi. Beh, strana storia, però, se fin al giorno prima proprio Zingaretti considerava Conte imprescindibile.
Ma il senso del reale deve aver prevalso, Tanto da far dire al Pd di non aver nessuna paura per una possibile svolta lacrime e sangue, come avvenne con Mario Monti: “Draghi è la personalità europea che più ha garantito un’idea di Europa per una buona spesa pubblica, contro l’austerità”. Le priorità per il Pd, al momento, sono il lavoro e la riforma del fisco “all’insegna della progressività, della giustizia e della sburocratizzazione, senza la furbizia dei condoni”.
E qui i punti di congiunzione con la Lega sembrano venir meno. Salvini ne ha parlato spesso negli ultimi tempi considerandoli uno strumento per far fare pace fra il fisco e i contribuenti. Se ciò entrerà nel programma di governo è difficile dirlo. Giorgetti, il vero dominus dell’operazione Carroccio, non sembra pensarla allo stesso modo. La stella polare del leghista, tanto da farlo essere in sintonia con Draghi, resta la gestione dei fondi europei, un sostegno grazie al quale il Paese può davvero ripartire.
Non solo. L’aver scelto, in modo peraltro netto, di sganciarsi da Fratelli d’Italia, il partito della Meloni rischia la marginalità, e affiancare Forza Italia, procedendo in parallelo, permette alla Lega di poter giocare davvero a tutto campo. Con uno schema adatto tanto al Nord, quanto al Sud. Per quanto paradossale, in questa fase di annusamenti, il miglior alleato del premier in pectore risulta essere la Lega, forte di un pragmatismo politico sconosciuto al Movimento 5 Stelle, e ostico al Pd, dovendo tenere insieme troppe anime, eternamente in contrasto fra loro.
Dato questo quadro la vera variabile sono i 5 Stelle, con la loro ondivaga posizione, con il loro procedere barcollante, mirato solo a restare sulla scena, non volendo scomparire nel cono d’ombra della residualità. Forse Draghi dovrà guardarsi più da loro di quanto sarà costretto a tenere in considerazione le baruffe chiozzotte fra Pd e Lega, moderna commedia dell’arte politica. All’interno della quale la figura di Beppe Grillo si colloca perfettamente.
La massima di Platone postata dal comico ligure sul suo profilo social – “Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l’insuccesso sicuro: voler accontentare tutti” – vorrebbe essere una presa di distanza dalla teoria dei vaffa, in realtà la certificazione della trasformazione Movimento in partito, stile prima Repubblica.