Dopo l’alluvione che l’ha colpita nella prima metà di maggio, ora l’Emilia Romagna deve fare i conti con caldo estremo e siccità. Nel giro di due mesi, insomma, questa regione affronta due eventi climatici opposti ma la cui origine è la medesima: il cambiamento climatico. Ma quali sono gli effetti di un clima torrido poche settimane dopo una violenta alluvione? Uno in particolare: in assenza di pioggia i terreni non riescono a liberarsi delle sostanze inquinanti che si sono depositate a maggio. Parlo di agenti chimici utilizzati in agricoltura (giova ricordare come le aree colpite siano “il frutteto d’Italia” proprio per l’intensa frutticoltura che lì si è sviluppata) ma anche di acque provenienti dagli impianti fognari che non hanno retto l’urto delle violenti piogge di maggio, non sono state smaltite e ristagnano; infine non va dimenticato che l’alluvione ha provocato la morte di diversi animali da allevamento, le cui carcasse concorrono a creare un vero e proprio rischio biologico. In alcune aree, ormai piuttosto limitate, restano infatti ancora degli allagamenti: qui, il perdurare della siccità può solo aggravare il problema dell’inquinamento.
A questo si aggiunge il corollario di problemi che ogni siccità porta con sé: il terreno si secca, dando origine alle vistose spaccature che vediamo spesso in televisione. Questo significa che se dovesse verificarsi una pioggia intensa, solo poca acqua farebbe in tempo a infiltrarsi nel terreno, tutto il resto scorrerebbe in superficie andando a ingrossare i fiumi senza, per giunta, ricaricare le falde acquifere. In eventi atmosferici così intensi le precipitazioni non riescono a umidificare il terreno ma anzi lo erodono, portando via particelle di suolo. Non è un caso che l’alluvione di maggio sia arrivata dopo due anni di drammatica siccità: in Emilia Romagna si è verificato infatti proprio quanto ho appena spiegato.
Il tempo che passa tra il momento in cui l’acqua piovana si deposita a terra e quello in cui finisce in un bacino fluviale si chiama “tempo di corrivazione”: più questo è basso, più aumenta il rischio di alluvione. Una delle priorità, allora, dev’essere quella di rallentare quest’acqua, lasciare che si infiltri nel terreno anziché lasciarla scorrere a tutta velocità verso valle. Come? Ragionando per bacino idrografico, pianificando gli interventi da monte a valle anziché realizzare singole opere che, sole, non hanno la stessa efficacia. Soprattutto nei pressi della costa, dove l’antropizzazione e la cementificazione sono così elevate – specie in Romagna – da rendere complesso qualsiasi intervento.
Si potrebbe pensare, ad esempio, ad aree di contenimento idrico che, dopo aver accolto l’acqua dei fiumi in eccesso durante le forti piogge, anziché restituirla tutta al fiume, ne conservino una parte per poter meglio affrontare i periodi siccitosi. La risorsa idrica potrebbe così essere utilizzata in agricoltura, evitando che il settore competa con l’industria e le città nei mesi estivi, quando la domanda aumenta ma la disponibilità scarseggia. Come spesso ripeto, si tratta di interventi che hanno bisogno di corposi finanziamenti. In questo senso accolgo con soddisfazione il fatto che l’Europarlamento abbia approvato la Nature restoration law, una legge molto articolata che, tra le altre cose, prevede l’impegno a non perdere spazi verdi urbani entro il 2030 e ad aumentarli del 5% entro il 2050. Un segnale importante che il nostro Paese, il più suscettibile al dissesto idrogeologico a livello europeo, dovrebbe cogliere al volo.
Piero Farabollini, presidente dell’Ordine dei Geologi delle Marche