Ho avuto la fortuna – anzi, dovrei dire, il privilegio – di seguire da vicino, giorno dopo giorno, il Concilio Vaticano II come inviato dell’agenzia Ansa. Ho potuto così essere testimone di una Chiesa tornata ad essere compagna di viaggio dell’umanità, a condividerne speranze, conquiste, ma anche sconfitte, continui sconvolgimenti. Muri che cadevano, ideologie che fallivano, ma restavano le povertà, le ingiustizie, restava una società che sembrava escludere Dio dalla quotidianità. Di una religiosità che cambiava, si rinnovava, esprimendosi in un nuovo modo di intendere e vivere il Vangelo; ma anche di crisi profonde e divisioni. La profezia del Concilio è racchiusa nella sua cerimonia di apertura. Nella sostanza, il discorso di Giovanni XXIII riportava il Vaticano II all’intuizione originaria, a quando quattro anni prima il Papa, da poco eletto, aveva confidato al Segretario di Stato, Domenico Tardini, l’intenzione di convocare le assise. “Deve la mistica navicella di Cristo rimanere in balia dei flutti ed essere spinta alla deriva, o non è piuttosto da essa che ci si attende non solo un nuovo monito ma anche la luce di un grande esempio?”.
La Seconda guerra mondiale era finita da tempo, ma la pace era sempre in pericolo. Si inaspriva lo scontro tra Usa e Urss, e presto si sarebbe arrivati alla costruzione del Muro di Berlino. Allo strapotere dei Paesi ricchi del Nord si contrapponeva un Sud estremamente povero, emarginato, pronto a esplodere come una polveriera. E intanto, era tutto un susseguirsi di grandi trasformazioni: l’emancipazione della classe lavoratrice, i primi sussulti del mondo giovanile, il tramonto del colonialismo, e un progresso che sembrava senza fine, con già le anticipazioni di una rivoluzione tecnologica che avrebbe avuto profonde conseguenze non solo sul piano sociale ma perfino su quello antropologico, su quello etico. E la Chiesa? La Chiesa si portava dietro i condizionamenti sia della cosiddetta “epoca costantiniana” (che presupponeva l’esistenza di una “societas” destinata a essere per sempre impregnata della religione cristiana), sia di un certo spirito negativo della Controriforma (che era sfociato in un atteggiamento troppo giuridico, clericale, moralistico). Non solo. Dall’inizio del XIX secolo, in reazione ai dissidi interni (il modernismo) e alle minacce esterne (il razionalismo filosofico e soprattutto il materialismo ateo del marxismo), la Chiesa si era caratterizzata per una sempre più accentuata uniformità sul piano del governo, su quello liturgico e pastorale, con una conseguente stagnazione a tutti i livelli ecclesiali. E, peggio ancora, con una situazione che poteva dar a credere che fosse stato raggiunto il massimo di cristianizzazione, mentre in realtà si andava espandendo una religiosità più che altro anagrafica.
Proprio per questo, e intuendo ciò che si andava preparando sulla scena del mondo, Giovanni XXIII – il Papa che un po’ tutti, per l’età avanzata, consideravano un “Papa di transizione” – aveva preso quella decisione, pur così rischiosa. E poi, nemmeno tre mesi dopo l’elezione, l’aveva annunciata ai cardinali di Curia. Era il 25 gennaio 1959. E, nel cenobio benedettino accanto alla basilica di san Paolo, i porporati, a sentire quella parola, Concilio, erano rimasti scioccati, increduli. E, aveva commentato ironicamente il Pontefice, avevano reagito con un “impressionante devoto silenzio”. Era la reazione di una Chiesa che non voleva cambiare nulla, perché aveva paura di cambiare. E che, nella fase preparatoria, avrebbe compiuto sistematicamente un’opera di contenimento, di opposizione, al fine di condizionare i vari schemi in una direzione ben precisa. Ma Giovanni XXIII non si era scoraggiato. Non era passato al contrattacco, e però, in questo modo, si era riservato uno spazio di libertà e di azione che gli aveva permesso di portare avanti il suo programma di “aggiornamento”. Programma che Roncalli confermerà tutto nel suo eccezionale discorso all’apertura delle assise.
La storia non sarebbe più tornata indietro. Senza stravolgimenti, certo, ma anche con determinazione, con fermezza, componendo insieme fedeltà alla Tradizione e rinnovamento profetico, ritorno alla purezza delle fonti e nuovo approccio con il mondo e con i problemi degli uomini. E, quel cambiamento, fu ancora più evidente la sera. Tutto accadde in maniera inaspettata. Piazza san Pietro si riempì di gente, Giovanni XXIII non voleva affacciarsi ma alla fine cedette. E, sulle sue labbra, sbocciò quello splendido discorso alla luna. “Si direbbe che anche la luna si è affrettata stasera. Guardatela là in alto”. Con l’invito ai papà, quando fossero tornati a casa, a dare una carezza ai loro bambini e a dirgli che gliela mandava il Papa. Parole semplici ma che andavano subito al cuore. Parole della vita di ogni giorno, ma che la Chiesa per tanto tempo aveva come dimenticato, per adottare invece un linguaggio tutto suo, astratto, lontano dalla quotidianità del popolo. Dopo quel discorso improvvisato, Giovanni XXIII rientrò commosso nella sua stanza. “Non mi aspettavo tanto”, confidò al suo segretario, mons. Capovilla. “Mi sarebbe bastato di annunciarlo, il Concilio. Dio mi ha permesso di avviarlo”. Morì pochi mesi dopo, ma la sua parte l’aveva fatta, e questo probabilmente era il ruolo che la Provvidenza gli aveva riservato: convocare il Concilio, aprirlo e tracciarne le grandi traiettorie pastorali ed ecumeniche. Insomma, l’inizio di una nuova storia, per la Chiesa cattolica ma anche per l’umanità.