Dall’inizio del 2021 ad oggi sono oltre 40 le donne assassinate dai partner o ex partner. È persino difficile fornire numeri precisi perché mentre sto scrivendo il numero di vittime potrebbe aumentare. Uno degli ultimi casi è particolarmente emblematico di ciò che continua ad accadere nel nostro Paese. E mi sembra di ripiombare nei lontani, ma non poi così tanto evidentemente, anni ‘70, a quel famoso “Processo per stupro” del 1979, quando leggo che il GIP nel caso di Vanessa Zappalà, scrive nella sua ordinanza (che ha disposto il solo divieto di avvicinamento per Tony Sciuto, il suo assassino poi suicida) che “la donna non riesce a tenere una condotta univoca” quasi a voler intendere che, proprio per questo, non sia stato possibile proteggerla. Eppure anche questa volta è andato in onda per l’ennesima volta lo stesso identico copione: lui la maltratta, lei lo lascia, lui la perseguita, lei lo perdona poi lo denuncia, poi si sente in colpa, lui insiste, la minaccia e la uccide e poi si suicida.
Si, ad essere davvero “univoco” è proprio questo preciso andamento, ivi compreso il tragico finale. Perché sembrano fatti davvero con lo stampino questi uomini feroci e immaturi, che non tollerano la pubblica umiliazione subita da una donna che decide di non volere più avere niente a che fare con loro. Chissà cosa deve aver provato Vanessa quando se l’è ritrovato davanti nonostante il divieto di avvicinamento che gli era stato imposto dal giudice. Vanessa credeva di essere al sicuro perché in fondo, questo diceva, lui non le avrebbe mai fatto davvero del male. “Era solo geloso”. Ne era convinta, lo aveva detto anche ad un’amica pochi giorni prima di morire. Che Vanessa avesse difficoltà a riconoscere quanto grave fosse la situazione non mi sorprende, anzi.
Io la chiamo da sempre “la badante interiore”, altri la definiscono “la sindrome della crocerossina”, ma parliamo sempre della stessa cosa, questa diffusissima propensione ad “accudire”, “perdonare”, “sottovalutare la gravità di determinati comportamenti”, “a sentirsi in colpa” perché i loro aguzzini, in fondo in fondo (al baratro) non sono poi così cattivi, malevoli, immaturi, pericolosi. È da qui che nasce la “condotta non univoca” indicata dal GIP del caso di Vanessa. È questo lo scenario psicologico, culturalmente determinato, che affligge moltissime donne.
Ma che tale scenario non lo sappiano ancora riconoscere e valutare gli operatori del settore giudiziario, a vari livelli, mi inquieta profondamente. Le donne vengono stritolate da “pastoie” emotive e culturali che sono anche peggio delle sabbie mobili. Ma i professionisti, i tecnici, devono valutare il comportamento degli aggressori e stimare correttamente il rischio di escalation a prescindere dalle “condotte” delle vittime. Anche Vanessa, come tutte quelle donne di cui abbiamo raccontato la storia in questi anni, è caduta nella trappola mortale del “Io ti salverò”, “Io ti cambierò” e, soprattutto, “lui sta molto male e devo aiutarlo, sostenerlo perché non mi farà mai veramente del male”. Di donne che la pensavano in questo modo sono pieni i cimiteri. Perché questi uomini li fermi solo se comprendi come funziona la loro mente.
Parliamoci chiaro, nessun divieto di avvicinamento o misura cautelare domiciliare è in grado di fermare chi è intimamente convinto di essere stato ingiustamente abbandonato e, complice anche una certa quota di disagio psicologico, si convince che l’unico modo per liberarsi di tutta quella rabbia e di quell’angoscia sia vendicarsi nella maniera più feroce possibile. Per questi soggetti solo il sangue di chi li ha abbandonati può lavare via il dolore. Ed è questo che bisogna far comprendere ai giudici.