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Domanda e offerta di lavoro in Italia, un punto di equilibrio ancora lontano

Sicuramente in questi mesi ci si sarà imbattuti in un qualche articolo in cui gli imprenditori si lamentano del fatto che fatichino a trovare dipendenti, imputando la cosa all’esistenza del Reddito di Cittadinanza che va a falsare la dinamica del mercato del lavoro spingendo molti a preferire il sussidio a un’occupazione più o meno remunerata.

Ovviamente i sostenitori dell’istituto bandiera del M5S contestano questa interpretazione mentre gli oppositori cavalcano la denuncia per demonizzare uno strumento che, tra distorsioni e cattiva applicazione, ha, però, permesso di sostenere diversi nuclei famigliari in questo periodo di crisi.

Non è questa l’occasione per discutere della bontà di questo strumento anche se, almeno in parte, abbia contribuito a generare la situazione odierna e che, sicuramente, andrà modificato nel futuro prossimo in seno, però, a una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali che permetta una tutela reale a chi, per una ragione o per l’altra, vada a perdere la propria fonte principale di reddito.

Iniziamo, però, a definire meglio cosa sia il mercato del lavoro. La Treccani ci può dare una mano indicando come mercato del lavoro l’insieme dei meccanismi che regolano il processo di incontro tra imprese che domandano lavoro e lavoratori che lo offrono determinando i livelli salariali e occupazionali.

È evidente che, nonostante il comune sentire, qui ci sia un ribaltamento dei ruoli, rispetto ad altri tipi di segmenti di mercato, dove sono le imprese a rappresentare la domanda e i lavoratori a rappresentare l’offerta.

In un sistema simile, quindi, se la domanda superasse di gran lunga l’offerta, la teoria economica prevedrebbe che i prezzi (leggi i salari in questo caso), dovrebbero aumentare per via della scarsità di quest’ultima ma così non è, sia per via di una certa rigidità data dal sistema di contrattazione nazionale, basato sui CCNL ma che non vieta la contrattazione ad personam migliorativa, e per la struttura stessa del sistema produttivo/imprenditoriale italiano che ha sempre visto il lavoro umano come la variabile esogena, il costo da comprimere al massimo.

Per queste ragioni l’accusa al Reddito di Cittadinanza non sta in piedi, nonostante sia un istituto strutturato e realizzato molto male come indicato in più di un’occasione da vari analisti, visto che il sussidio massimo non possa superare i 780 euro mensili sia perché la platea a cui è stato erogato, comprensiva anche della c.d.  Pensione di Cittadinanza, è di poco più di 1’655’000 individui, ben lontano dagli oltre 2’400’000 disoccupati censiti nel Paese.

Ora, benché l’assegno di cittadinanza sia, in effetti, competitivo rispetto a delle basse occupazioni impiegatizie o operaie (che non significa basse a livello di competenze sia chiaro ma a livello salariale), quelle che si aggirino intorno ai 1’000 euro mese per intenderci, è evidente che il problema dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro abbia radici ben più profonde. Queste vanno cercate innanzitutto nella scuola e nei percorsi formativi post studi e nella struttura stessa del mercato italiano, come già si era accennato in precedenza. La scuola, in primis, non forma al lavoro ma a qualcos’altro.

In tanti hanno parlato di primato umanistico a dispetto delle materie STEM che, sicuramente, incide, ma non è il punto focale, visto che i migliori studenti italiani riescono a integrarsi in realtà internazionali meglio dei corrispettivi esteri, avendo maturato un bagaglio culturale di tutto rispetto e una capacità logica di elaborazione dei dati e del pensiero molto superiore a quanto prepari la scuola in altri stati.

Il dramma vero è nella qualità media dell’insegnamento che varia in maniera incredibile da zona a zona e pure da scuola a scuola; non è una questione di scuola statale vs scuola privata, ovviamente, visto che esistono eccellenze nella prima categoria e pessimi istituti nella seconda ma di offerta generale formativa.

Già il valore legale del titolo di studio, un unicum in tutto il mondo, va a livellare, internamente al Paese, la valenza del titolo dimenticando che un 90 preso in talune università potrebbe indicare una preparazione ben superiore al 110 cum laude in altre ma il problema è ancora più profondo e si snoda in un indirizzo spesso fin troppo astratto delle competenze da raggiungere, cosa che obbliga a lunghi periodi di formazione interni alle aziende per i neoassunti, nonostante il tipo di diploma richiesto per l’assunzione.

La formazione continua, poi, è un altro punto piuttosto complicato poiché costosa, in tempo e risorse finanziarie, per gli imprenditori che raramente la vedono come un investimento. Questo porta a un’eccessiva segmentazione della forza lavoro che, in caso di evoluzioni tecnologiche che rendano superflua la posizione, ovvero di ricerca di nuove alternative di lavoro vanno a bloccare le dinamiche creando, soprattutto nelle qualifiche più basse, una massa di persone che non possano accedere ad altre alternative o a nuove professioni che si affaccino sul mercato.

È evidente che un discorso similare discenda dalla struttura a PMI del comparto produttivo italiano, poiché le risorse per finanziare la formazione restano scarse e si preferisca “continuare finché si può e poi ci penseremo” che, alla fine, porta o l’azienda a uscire dal mercato perché non più in grado di sostenere la domanda oppure alla sostituzione delle maestranze con giovani che abbiano le competenze necessarie alle mutate esigenze.

Questo è un discorso piuttosto spinoso, perché si colloca in una tendenza di svilimento del lavoro verso settori e professioni a bassa qualifica e bassa remunerazione, così come indicato nei vari rapporti annuali sul mercato del lavoro a cura del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di ISTAT, INPS e ANPAL, descrivendo il lavoro dipendente come un asset fungibile e non di un vero e proprio investimento competitivo da parte delle aziende.

In parte questa visione è dovuta anche dalla commistione tra l’altro costo del lavoro che vede l’Italia sul podio in Europa, preceduta dalla sola Germania, dall’elevata pressione fiscale, che vede l’Italia quita dietro Belgio, Germania, Ungheria e Francia, e dai vari costi burocratici, per tempo e costi vivi, dovuti alla burocrazia e all’arretratezza infrastrutturale.

Stanti queste evidenze, quindi, l’unica voce su cui si possa agire per salvaguardare la redditività di un’azienda resta il costo del lavoro che tende ad essere minimizzato con la conseguenza che i migliori preferiscono emigrare o cambiano occupazione non appena trovino un’occasione migliore, gli altri non abbiano alcun interesse a migliorare accettando un impiego stabile e un salario sicuro o un sussidio da integrare con lavoretti, magari, in nero.

Questa è la situazione odierna, come si è visto il RdC non ne è la causa ma, se vogliamo, una conseguenza o, al più, un mattone nelle fondamenta di un sistema inefficiente che, però, non comprende che il futuro si nasconda nell’eccellenza, nel miglioramento e nell’efficientamento dei sistemi produttivi per migliorare proprio produttività e redditività dove gli investimenti necessari, al di là dei miglioramenti tecnologici, sono formazione e salari, i due punti per spingere l’eccellenza portando i lavoratori a migliorarsi continuamente.

Forse, non domani ma dopodomani, quando questa visione si sarà diffusa anche la stagnazione in cui è piombata l’Italia finirà e non si tratta solo di mercato del lavoro.

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