Nel quinto secolo prima di Cristo, nella florida Atene che in quel periodo visse la sua epoca migliore, nota come età di Pericle, un talentuoso Sofocle, probabilmente il maggior tragediografo mai esistito, scrisse Antigone, dedicata alla sofferenza per una legge ingiusta: ella piange la morte del fratello Polinice, caduto in battaglia contro l’altro fratello Eteocle per la riconquista del trono di Tebe dopo l’abbandono del loro padre Edipo; Antigone chiede la sepoltura del corpo dello sventurato fratello ma Creonte, fratello della loro madre Giocasta, ne vieta l’esecuzione avendo egli combattuto contro Tebe.
È forse il primo esempio letterario di scontro tra le ragioni del diritto ed i sentimenti, tra la legge e la coscienza, tra il diritto positivo e quello naturale, il primo riconosciuto dallo stato ed il secondo appartenente all’intima consapevolezza della persona. L’uno prevale poiché espressione diretta della natura umana e l’altro lo recepisce per darne forza e sanzione alla sua inosservanza. L’uno è universalmente riconosciuto, l’altro trae il suo fondamento dallo stato di diritto che lo ha legiferato.
Certamente il dibattito giusnaturalista avviato dai sofisti agli albori del pensiero filosofico ha percorso i secoli attraversando Platone ed Aristotele, e fu Agostino il primo a coglierne il limite a favore della volontà divina con cui si confondeva, pensiero che fu ripreso da Tommaso d’Aquino. La riforma protestante favorì il razionalismo cartesiano, che privilegiò ancora la ragione e diede luogo al pensiero empirista inglese, che aprì le porte all’illuminismo. Questo filone ha però esaurito il suo corso quando la speculazione ha fallito la definizione di natura, potendo in questa accezione comprendersi le più svariate idee.
Ciò che però qui a noi interessa rimarcare è che vi sono alcuni diritti – fondamentali per lo sviluppo della vita, quali innanzitutto il diritto alla vita stessa – che sono percepiti immediatamente come tali a prescindere dalla loro collocazione in un ordinamento statale e balza immediata la necessità che essi siano anche recepiti dall’ordinamento giacché il contrasto tra i due costituisce uno iato particolarmente sentito.
Antigone viene condannata perché viola la legge ancorché il diritto che reclama è, diremmo, sovrannaturale, irrinunciabile, universale: chiunque ha diritto a sepoltura e l’umana pietà – anche nel V secolo a.C. – non può consentire il vilipendio dei corpi; almeno tre secoli prima, Priamo invoca la restituzione del copro di Ettore ed Achille si commuove col ricordo del padre. Se tale è la considerazione della pietà per i defunti, l’editto di Creonte che vieta la sepoltura di Polinice si pone in contrasto con un sentimento forte e diffuso, atavico e sacro, legittimando la ribellione di Antigone che invoca l’ingiustizia del divieto.
La tragedia non si attesta sulla morte di Antigone che si toglie la vita nella cella in cui è rinchiusa e neanche nel pentimento di Creonte che ha compreso il suo errore, illuminato dal cieco Tiresia, ma nel fatto che esso arriva quando oramai Antigone aveva definitivamente affermato la sua certezza.
La forza della tragedia trascina nella morte anche Emone, il figlio di Creonte innamorato di Antigone, e la moglie Euridice per aver perso il figlio. Creonte, ormai solo, invoca la morte.
Chi è Antigone? La consapevolezza della insopprimibilità dei diritti fondamentali che vanno oltre la possibilità che il sovrano li regoli diversamente, la irrinunciabilità della propria coscienza di fronte a disposizioni normative che hanno solo la veste di leggi ma che si pongono in stridente contrasto con essa, la ineseguibilità di un ordine che attenta alle convinzioni più profonde dell’animo umano, il rifiuto di accettare imposizioni prive di adeguata giustificazione. Da sempre l’icona della lotta alle dittature, ai totalitarismi, ai sistemi legislativi che non tengono conto dei diritti umani calpestando il più elementare rispetto della persona. L’emblema della libertà.
Ma chi è Creonte? È il tiranno parziale che emette un ordine in cui ha interesse personale poiché Polinice combatteva il suo regno e quindi sul suo cadavere impone il disprezzo, violando egli la suprema legge della pietà per i defunti. È l’esempio negativo del governante che utilizza il potere per fini propri, in questo caso vendicativi della propria animosità contro l’avversario. La tragedia lo travolge mentre il coro ammonisce che la felicità è figlia della saggezza e del rispetto dei Numi e che il castigo ai superbi arriva troppo tardi per rimediare. Il simbolo del dispotismo.
Il diritto contro la libertà? O l’autorità contro il diritto.
Duemila cinquecento anni dopo la lezione continua.