C’era una volta un tempo mitico in cui il denaro veniva emesso in grande quantità e a prezzo nullo… Un attimo, il denaro ha un prezzo? Questa, in verità, è una domanda molto importante, per quanto sembri scontata, sulla cui risposta si sono scontrati gli esponenti di diverse “correnti” di pensiero economico. La risposta alla domanda, comunque, è sì ma andiamo per gradi. La prima cosa da avere chiara, prima di iniziare il discorso, è comprendere cosa sia la moneta, anche se i più pignoli preferiscono usare il termina “valuta” per distinguere il mezzo dalla sua manifestazione fisica. Per addentrarci in questa materia, il sito della BCE può venire in aiuto descrivendo la moneta sia a livello di definizione, sia, brevemente, a livello storico, sia con accenni alle basi di politica monetaria. Quindi cos’è la moneta? La si può definire come una “cosa” che deve mostrare tre caratteristiche indispensabili:
- deve essere accettata comunemente come mezzo di pagamento;
- deve essere una unità di conto per la formazione dei prezzi;
- deve essere una riserva di valore per il risparmio.
Sugli ultimi due punti, poi, torneremo nel dettaglio tra poco. Il concetto di moneta si è evoluto nel corso del tempo, dalla prima concezione di “moneta merce”, cioè di un oggetto fabbricato con materiali aventi un valore di mercato (e.g. le monete d’oro), a quello successivo di moneta rappresentativa, cioè dalle prime lettere di credito al portatore alle banconote “convertibili” (quindi scambiabili con una determinata quantità di merce numerario, il cosiddetto “commodity standard”), all’attuale concetto di moneta fiduciaria, cioè emessa da una banca centrale e dichiarata a corso legale ma non convertibile, ad esempio, con una prefissata quantità d’oro.
Il passaggio definitivo tra la moneta convertibile (almeno concettualmente) a moneta fiduciaria fu dovuto anche all’evoluzione e all’allargamento del credito a privati ed aziende. La moneta, infatti, non è emessa solo dalla banca centrale ma può essere creata anche dal circuito delle banche commerciali, distinta, così, tra moneta esterna e moneta interna. La prima è quella emessa direttamente dalla Banca Centrale attraverso dei “prestiti” alle banche commerciali e l’operazione è governata attraverso l’apposizione dei tassi di interesse, cioè del “costo del denaro”. Le banche commerciali, poi, possono emettere moneta interna mediante l’istituto del credito che va ad ampliare la massa monetaria circolante anche se, volendo vedere, questo sarebbe un gioco potenzialmente temporaneo e a somma zero, infatti se tutte le posizioni creditorie delle banche venissero chiuse contemporaneamente il saldo complessivo della cosiddetta moneta interna sarebbe nullo.
È evidente che il ricorso a un commodity standard, potenzialmente, andrebbe a irrigidire il moltiplicatore del credito perché la convertibilità legale delle somme possedute dai soggetti non permetterebbe di aumentare la quantità del circolante oltre le riserve di merce numerario depositate riducendo le possibilità di credito e, di conseguenza, lo stimolo agli investimenti compromettendo le prospettive di crescita economica.
A questo va aggiunta la natura duale della merce numerario alla base del commodity standard che ha un valore al di là dalla funzione monetaria. Un aumento delle quotazioni di questa, quindi, innescherebbe una spinta deflazionistica indipendentemente dalle politiche monetaria mentre, invece, un crollo dei prezzi, come avvenne nel XVI secolo sotto il regno di Filippo II di Spagna per le forti importazioni di oro e argento dalle miniere americane, porterebbe a spinte inflazionistiche difficilmente controllabili.
Tutto questo, ovviamente, non significa che la valuta fiduciaria sia la migliore possibile o sia esente da difetti, sia chiaro, ma, al momento, è sicuramente quella più efficiente poiché una gestione “allegra” della politica monetaria o la scarsa credibilità delle istituzioni nazionali possono generare ben più danni rispetto ai casi appena descritti a livello di commodity standard, come i casi della repubblica di Weimar o quelli, più recenti, dello Zimbabwe o del Venezuela insegnano. Anche una politica monetaria troppo rigida, per contro, avrebbe conseguenze negative, bloccando consumi e investimenti, portando a forti distorsioni dal lato della crescita economica già nel medio periodo. Questo è il dilemma in cui, oggi, si trovi ad agire la BCE nel far fronte alle criticità che si stanno mostrando nel mercato dell’euro-area.
Sono passati dieci anni all’ormai iconico “Whaterver it takes” di Mario Draghi che, letteralmente, salvò l’euro dopo lo scoppio della crisi del debito sovrano nei paesi periferici europei e lo scenario è mutato sensibilmente da allora. Se pur vero che molti problemi di allora non sono mai stati superati, come ad esempio l’indebitamento pubblico monstre dell’Italia, è anche vero che la ripresa post-pandemica innescatasi lo scorso anno e la guerra, di fatto, aperta dalla Russia in Ucraina, ha surriscaldato i prezzi di fonti energetiche e materie prime, propagandosi, poi, su tutto il sistema economico e spingendo verso l’alto i tassi di inflazione.
Inevitabilmente questa situazione spinge alla normalizzazione della politica monetaria, dopo anni di interventismo espansivo, per riportare le spinte inflattive all’interno dell’intervallo di oscillazione obiettivo; secondo la governatrice Christine Lagarde, infatti, la progressione dei prezzi è già oltre i limiti dei target di medio periodo sia a livello di rilevazione spot sia di aspettative future. Sapevamo tutti che l’azione espansiva della BCE non sarebbe stata eterna, soprattutto dopo l’inizio del tapering da parte della FED ma, forse, l’attendismo che Francoforte continua a mantenere potrebbe lasciare molti perplessi.
Non credo sia un mistero per alcuno il fatto che un rafforzamento del dollaro americano sull’euro possa incrementare ulteriormente gli oneri per l’importazione di materie prime e di merci, spingendo verso l’alto i prezzi al consumo e facendo vacillare il compito di stabilizzatore dei prezzi in capo alla BCE e questo spinge a una normalizzazione monetaria non più rinviabile ma… C’è un “ma”!
Le future decisioni della BCE si muovono sul filo di un rasoio perché il repentino innalzamento dei tassi, unito alla chiusura del programma di alleggerimento quantitativo potrebbe, da un lato, minare la ripresa post-Covid19, che è ancora in atto e “azzoppata” dalle incertezze che il rischio di allargamento del conflitto ucraino ha creato e, dall’altro, riaprire la crisi del debito sovrano per via del maggior costo della servitù del debito non solo in Italia ma anche in altri stati ad alto indebitamento.
Si parla di “stati ad alto indebitamento” perché un parametro importantissimo, anche se poco considerato dalla stampa soprattutto, per valutare la stabilità finanziaria di uno stato o di un’area economica non è solo il pluricitato, spesso anche a sproposito, rapporto debito pubblico su PIL ma il più ampio debito globale (cioè debito pubblico più debito privato) su PIL. Qualcuno, a questo punto, potrebbe obiettare su cosa possa interessare alla tenuta dei conti pubblici il livello di indebitamento di famiglie e imprese.
La risposta è semplice, un eventuale default del debito privato, dovuto alla caduta dei redditi dovuto a una stagflazione, per esempio, o da un aumento eccessivo dei tassi di interesse si ripercuoterebbe direttamente sul sistema bancario che dovrebbe far fronte a ingenti perdite patrimoniali bloccando, di fatto, la “cinghia di trasmissione” dell’economia e la corretta allocazione delle risorse obbligando a un intervento di ricapitalizzazione da parte o della banca centrale, se questa operi anche come “prestatore di ultima istanza” (non la BCE, quindi), andando, però, a gravare con l’intervento sulla stabilità valutaria o da parte dello stato per via erariale, trasferendo così il debito privato a carico del pubblico.
Le grandi crisi nel Vecchio Continente, Islanda (seppur non faccia parte dell’Unione Europea), della Spagna e dell’Irlanda nel 2008 o quella della Slovenia nel 2012 nacquero proprio da un potenziale default del debito privato, esattamente come avvenne in USA con la questione sub-prime. Da questa breve trattazione di capisce quanto sia difficile la pianificazione dell’azione futura della BCE e perché Christine Lagarde abbia rimandato all’estate, quando il quadro geopolitico ed economico potrebbe diventare più chiaro, sperando, magari, che il solo effetto annuncio di una stretta monetaria possa già provocare un miglioramento dello scenario.
Non credo, oggi, ci sia qualcuno che voglia essere nei panni della governatrice cella BCE; come descritto ogni sua decisione (in concerto con il consiglio, ovviamente) potrebbe avere effetti indesiderati più impattanti anche dell’attuale corso inflattivo e il “gioco di bilancini” potrebbe essere vanificato da un qualsiasi evento esterno, il problema vero è che non è più il momento delle attese e una decisione in un senso restrittivo o il mantenimento del modello espansivo, anche se meno ampio che nel passato, dovrebbe essere presa e attuata senza troppi indugi.