E’ stato presentato nei giorni scorsi il XXI Rapporto Inps per il 2021. Tra i tanti argomenti affrontati vi è anche il tema delle c.d. pensioni povere. Il 40% dei pensionati ha percepito un reddito pensionistico lordo inferiore ai 12.000 euro. Da un’analisi dei percettori del reddito pensionistico fino a 10.000 euro nel 2021 emerge che solo il 15% dei pensionati in questa fascia riceve un assegno sociale e il 26% una pensione al superstite. Quasi il 60% percepisce una pensione di vecchiaia o anticipata dal Fondo Pensione Lavoratori Dipendenti, il che riflette l’ampiamente discusso fenomeno della cosiddetta povertà lavorativa – tema che ricollega la povertà lavorativa al salario orario e ai tempi di lavoro, e anche alla composizione familiare e alla azione retributiva dello Stato.
Il rapporto illustra poi come la probabilità di una pensione inferiore a 10.000 euro sia decrescente nell’anzianità contributiva, nella retribuzione, e nell’età al pensionamento (da cui dipende il tasso di trasformazione del montante contributivo in rendita pensionistica). È invece crescente nell’età di inizio lavoro (che determina la “quota contributiva” della pensione) e nella scelta di anticipare l’uscita, soprattutto per le donne (per esempio con Opzione donna che comporta il ricalcolo dell’assegno col metodo contributivo). Per quanto riguarda le differenze in termini di reddito pensionistico, nel periodo 1995-2021, l’indice di disuguaglianza dei redditi pensionistici è cresciuto di circa il 10%, attestandosi a 0,35 nel 2021, un valore inferiore a quello delle retribuzioni che è superiore a 0,4.1 La disuguaglianza è massima tra le pensioni di vecchiaia dei lavoratori dipendenti del settore privato (soprattutto maschi), presumibilmente per la grande variabilità della loro anzianità contributiva.
Nel rapporto viene poi effettuato un confronto tra paesi per quanto riguarda la spesa pensionistica utilizzando dati Eurostat sulla base dei quali, nel 2019, l’ultimo anno per cui sono disponibili i dati riclassificati, la spesa pensionistica dell’UE 27 è stata il 12,7% del Pil. In Italia e Grecia il rapporto è stato pari al 16%, in Francia al 15%, in Germania al 12% e al 5% in Irlanda. Come prevedibile, la spesa in rapporto al PIL risulta crescente nel tasso di sostituzione della pensione rispetto all’ultimo salario, per cui nei paesi meno generosi, laddove la pensione è una frazione contenuta del salario, la spesa in rapporto al PIL è più bassa. Non emerge invece una correlazione tra la spesa media per beneficiario e il regime di calcolo della pensione.
Occorre poi tener conto del fatto che il numero delle pensioni è superiore a quello dei pensionati, per cui vi sono soggetti che percepiscono più di un trattamento. È soprattutto il caso delle donne che, per ragioni demografiche essendo più longeve degli uomini, percepiscono la maggior parte delle pensioni ai superstiti. L’80% dei maschi riceve una sola prestazione rispetto al 64%delle femmine, il 27% delle quali riceve due prestazioni e l’8% tre o più. Appunto il divario negli importi medi delle prestazioni è almeno in parte riconducibile a differenze nella tipologia dei trattamenti percepiti e a storie retributive più vantaggiose per i maschi. Poi differenze notevoli tra maschi e femmine si hanno per le pensioni di vecchiaia e quelle di invalidità con un divario di genere intorno al 50% ma gli uomini percepiscono a grande maggioranza la pensione di anzianità più corposo nel numero e nell’importo.
Il divario di genere nelle prestazioni pensionistiche più strettamente legate all’attività lavorativa, ovvero le anticipate e la vecchiaia, è legato ad almeno tre fattori: retribuzione oraria, tempi di lavoro (ovvero quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si è occupati nel corso di un anno) e anzianità contributiva (che dipende dalla durata e dalla continuità della vita lavorativa). I dati sono da leggere bene perché misurare il differenziale retributivo di genere è cosa complicata infatti non si capisce bene da dove viene fuori il dato del 6%, un valore contenuto rispetto alla media europea (13%), che – si dice – è il risultato della sostanziale uniformità nel comparto a controllo pubblico a fronte di una forte disparità nel privato che supera il 17% retributivo mentre Inps denuncia ben il 25% di divario salariale.