È stato veramente un anno terribile per tutti, questo 2020, e anche per la scuola non è stato facile reagire efficacemente a eventi di portata imprevista e imprevedibile. Distinguerei due fasi, anzi tre, rispetto alle quali la valutazione dei comportamenti e delle decisioni assunte può essere anche diversa.
La prima fase è quella in cui si è avuta l’esplosione dell’emergenza, nel febbraio scorso. Credo vi sia stata da parte di tutti una reazione giusta, fatta di provvedimenti drastici assunti con coraggio e sostanzialmente condivisi e sostenuti anche sul piano dei comportamenti personali. Il Paese ha dato prova di maturità, responsabilità e senso civico. Gli operatori della sanità sono stati giustamente definiti eroi, la scuola ha letteralmente re-inventato il proprio modo di lavorare, per evitare che alunne e alunni, ad aule chiuse, fossero totalmente privati del loro diritto all’istruzione e che si interrompesse del tutto una relazione educativa essenziale, specie per le fasce di età più basse.
Sono state davvero episodi marginali le polemiche cui talvolta si è dato spazio sugli organi di informazione al di là della loro effettiva consistenza: ha prevalso lo sforzo generoso di un intero corpo professionale, docenti e dirigenti hanno agito con intelligenza, competenza e generosità, sobbarcandosi un lavoro non meno gravoso di quanto sarebbe avvenuto operando in presenza.
Purtroppo hanno spesso incontrato ostacoli insormontabili, nelle situazioni più deprivate dal punto di vista delle infrastrutture e delle dotazioni strumentali di cui la didattica a distanza ha necessariamente bisogno. È stato apprezzabile in questo senso, ma purtroppo insufficiente, l’impegno profuso dall’Amministrazione utilizzando le risorse straordinarie stanziate dal Governo. Il fatto è che tante situazioni di debolezza, di svantaggio e di squilibrio, già preesistenti, sono emerse in tutta la loro gravità rischiando in molti casi di accentuarsi.
La seconda fase è quella in cui si sarebbe dovuto lavorare in vista di un possibile ritorno alle attività in presenza, per restituire la scuola alla sua dimensione più piena e autentica, soddisfacendo tutte le condizioni perché ciò potesse avvenire in sicurezza. Qui vi sono stati a mio avviso errori e insufficienze molto evidenti. È mancato un vero coordinamento dell’intensa attività svolta nei mesi estivi dai dirigenti e da tutto il personale scolastico per preparare le scuole alla riapertura. Grande enfasi su questioni di forte impatto mediatico (i banchi a rotelle su tutto), poco o nulla su versanti più decisivi, come i servizi di trasporto che infatti non hanno retto alla prova.
L’ostinazione con cui si è agito sul versante del reclutamento, disattendendo e snaturando le intese costruite con grande fatica nei mesi precedenti, hanno vanificato un obiettivo fondamentale, avere da subito tutto il personale docente necessario stabilmente in cattedra. Evidente e grave, poi, l’assenza di figure specializzate di supporto sanitario, che ha lasciato le scuole a gestire in solitudine emergenze per le quali non aveva né competenza né preparazione. Inevitabile che la recrudescenza della pandemia nei mesi autunnali rendesse necessario per buona parte del sistema un ritorno alla didattica a distanza.
E siamo alla terza fase, quella che dovrebbe preparare, dal 7 gennaio, il rientro a scuola anche degli alunni delle superiori. Una fase che incrocia un forte aumento delle fibrillazioni politiche, rischiando ancora una volta di trasformare le questioni che riguardano il nostro settore in argomento di polemica più che di confronto costruttivo. A scapito della concretezza di cui c’è più che mai bisogno. Lunghe discussioni sulla data di rientro, come se il vero problema fosse quello, e non potenziare le linee di trasporto, sorvegliare ciò che accade fuori e attorno alle scuole, assicurare la necessaria assistenza per individuare e gestire in modo corretto eventuali casi di contagio.
La decisione di rivedere i criteri per la riapertura del 7 gennaio mi sembra saggia e opportuna: non essendo stato risolto il problema dei trasporti, la percentuale del 75% avrebbe potuto rivelarsi difficilmente gestibile da parte delle scuole se non a costo di gravi disagi, comportando una differenziazione degli orari che avrebbe ricadute pesanti soprattutto per gli alunni pendolari.
Ritengo che la scelta di utilizzare il limite minimo del 50% debba essere confermata anche dopo il 15 gennaio. La gestione di un istituto scolastico con 1200/1500 alunni è piuttosto complessa e intervenire per la terza volta nell’anno scolastico sull’organizzazione e sull’incrocio degli orari non è affatto lineare né scontato. Dovrebbero essere considerate le specificità territoriali e logistiche, oltre che le diversità tra indirizzi, la presenza di laboratori o di orari già presenti nel pomeriggio.
La percentuale minima di alunni in presenza dovrebbe essere la medesima definita per i trasporti, rimanendo alle scuole la possibilità di individuare le migliori soluzioni per giungere eventualmente ed in accordo con il Prefetto, anche al 100 per cento di alunni in presenza, ove le condizioni di contesto lo rendano possibile.
Un ulteriore contributo a rafforzare la prospettiva di una riapertura che possa protrarsi senza ulteriori stop potrebbe venire da una corsia preferenziale riservata al mondo della scuola nell’ambito della campagna vaccinale. Penso che oltre al personale scolastico, esposto in modo particolare al rischio di contagio, anche alunne e alunni possano essere considerati tra i soggetti da sottoporre in via prioritaria a vaccinazione, almeno quelli dell’ultimo anno. Per loro si profila l’esame di Stato, va fatto di tutto perché possano svolgerlo in presenza.
Noi non abbiamo mai voluto assecondare l’idea di una contrapposizione insanabile tra la didattica in presenza e la didattica a distanza, quasi si trattasse di modelli antitetici e inconciliabili. In realtà, e ho avuto modo di dirlo più volte anche in precedenti interventi, la didattica a distanza, con tutti i limiti e le difficoltà incontrate e che anche prima ho ricordato, è stata una risorsa preziosa per evitare che il lockdown si trasformasse, per le attività scolastiche, in un totale blackout.
Se è vero che l’emergenza Covid ha fatto da evidenziatore, nella scuola, di tanti problemi che si trascinano da tempo, ha rivelato tra questi anche un ritardo quanto a preparazione complessiva del sistema nel campo delle nuove tecnologie e nell’utilizzo della rete come veicolo sempre più potente e diffuso di informazioni, conoscenze, relazioni. Voglio dire con estrema chiarezza che la dimensione dell’attività in presenza è insostituibile, connaturata all’idea di scuola come comunità fatta di rapporti immediati e diretti, tra docenti e alunni ma anche degli alunni fra di loro, indispensabili per l’efficacia della relazione educativa, dei processi di apprendimento e più in generale di maturazione e di crescita.
Ciò detto, altre modalità di relazione, mediate dalla tecnologia e dalla rete, anche se non potranno (e non dovranno) rappresentare “il futuro” della scuola, di quel futuro dovranno far parte, necessariamente e giustamente; non solo come modello sostitutivo cui fare ricorso in emergenza, ma come crescita delle competenze riguardanti strumenti, canali e linguaggi legati ad ambiti rispetto ai quali la scuola non può rimanere indifferente o peggio ancora estranea, mentre cresce ogni giorno di più la loro frequentazione da parte delle giovani generazioni, quelle cui si rivolge primariamente l’azione degli insegnanti.
Ambiti da presidiare in termini educativi, sfruttando le notevoli potenzialità che le tecnologie e la dimensione della rete rendono disponibili in termini di accesso e sviluppo delle conoscenze, guidando nello stesso tempo all’uso consapevole e critico di strumenti e forme comunicative molto esposte a rischi di condizionamento. La definizione di didattica digitale integrata, che ha sostituito e arricchito quella di “didattica a distanza”, è rivolta in una questa direzione che va oltre l’emergenza.
Nel nostro documento “Rilanciare la scuola”, presentato pochi giorni or sono, si richiama fra l’altro l’esigenza di “pensare la scuola come uno spazio aperto per l’apprendimento e non solamente come un luogo fisico. In questo nuovo scenario – si afferma – le tecnologie sono ordinariamente al servizio dell’attività scolastica, delle attività orientate alla formazione e all’apprendimento”. Giusto e necessario, allora, prevedere un significativo investimento di risorse non solo per risolvere le lacune di tipo strutturale e infrastrutturale che creano disparità e squilibri di tipo territoriale e sociale, ma anche per azioni di carattere formativo per promuovere l’innovazione didattica attraverso l’uso delle nuove tecnologie, agevolando una “trasformazione culturale” che investa in maniera significativa i modelli educativi e la competenza professionale degli operatori scolastici.