In fondo com’è iniziata non lo ricorda più nessuno. E, arrivati a questo punto, il dettaglio conta relativamente, anche se i temi dominanti erano velocità e rinnovamento. Di entrambe le cose se ne sono perse le tracce, pur essendo passati solo due anni. Come in un film proiettato all’incontrario la politica italiana, in particolare quella messa in campo dal centrosinistra, dai titoli di coda sta vertiginosamente risalendo verso la sigla iniziale, riportando tutto alla prima Repubblica. In pratica sono tornate le correnti, i caminetti, le conventicole, le trame e le faide. Il partito liquido si è fatto solido e le società dinamica è tornata ad essere statica.
Quel grande futuro dietro alle spalle oggi è diventato cappa, nebbia che annebbia, rendendo difficile la visione della prospettiva. Insomma, fuor di metafora, siamo di nuovo nella palude. La prova più evidente è data dallo stato dell’arte del partito di maggioranza relativa, dove il congresso continuo e le fughe in avanti degli aspiranti leader stanno producendo un corto circuito, il cui risultato è sotto gli occhi di tutti.
Il governo Gentiloni, nonostante la voglia di fare, naviga a vista. Gli esponenti del Pd, più che dell’azione dell’esecutivo, sono ossessionati dalla direzione del partito. Gli alleati, ovviamente, stanno a guardare, nella convinzione che tutto ciò allontana le urne. Nel frattempo gli aspiranti leader, da Dario Franceschini al ministro Calenda, tessono le loro trame, consapevoli che la prossima tornata di nomine nelle controllate di Stato sarà fondamentale per gli equilibri di Palazzo Chigi. Impossibile stare alla finestra. E proprio per questa ragione congresso del Pd e durata dell’esecutivo sono temi strettamente connessi fra loro, trovando nel valzer dei nomi il punto d’intersezione. Esattamente come avveniva nella prima Repubblica, sempre ammesso che la seconda sia mai arrivata, dove lo schema di gioco era facile all’apparenza ma difficile nella sua applicazione. Il dibattito di questi giorni che anima il Pd è la dimostrazione plastica di tutto ciò. Sostiene Roberto Speranza, deputato dem e esponente di primo piano della minoranza, che il congresso “non può essere una farsa fatta solo come plebiscito del capo. Prima viene l’Italia”. Vero, solo che lo stesso ragionamento viene svolto anche durante la campagna elettorale per il referendum e sappiamo bene com’è andata a finire.
Lo stesso Speranza, aprendo l’assemblea della minoranza Pd con i parlamentari e esponenti del territorio, tipica liturgia da prima Repubblica, ha sostenuto che “serve una discussione politica vera”, perché il punto non sono le persone ma la “linea politica. Il Pd”, ha aggiunto, “non è il partito dell’avventura”. Insomma, il congresso non sarà il luogo dello scontro ma dell’incontro secondo la teoria di Speranza. Teoria non certezza, perché i renziani la vedono in tutt’altro modo. L’ex premier non vuol minimamente perdere la presa sul partito, per questo deve trasformare il congresso in una sorta di mini voto anticipato. Altra possibilità non è data, dato l’attivismo dei piccoli leader in crescita.
“Non credo proprio che il settore delle fake news, o delle bufale per dirla meglio, abbia bisogno di essere ulteriormente incrementato” sostiene il sottosegretario allo Sviluppo economico, Antonello Giacomelli, fedelissimo del ministro dei Beni culturali, a proposito delle indiscrezioni che parlano di un tandem Franceschini-Orlando in funzione anti-Renzi, “Dario è uno dei principali leader della maggioranza di Renzi. E’ una persona leale e sta dando un contributo importante a risolvere i nodi politici di questa fase delicata”. Le stesse cose che dicevamo nella Dc i capicorrente quando erano in corso lotte intestine e faide senza esclusione di colpi. Il ritorno al passato, forse, è davvero completo. Peccato che il Paese abbia bisogno di futuro.