Lo svolgimento di un’attività professionale è una grande responsabilità non solo sociale ma anche e soprattutto giuridica. L’attività del professionista presuppone l’impiego di competenze tecniche e conoscenze, frutto di studi e di esperienza.
Ognuno di noi nella propria esperienza di vita si è di certo rivolto ad un medico, ad un avvocato, ad un ingegnere o un architetto, o semplicemente ha ascoltato un telegiornale o letto un quotidiano. Tutti coloro i quali svolgono questo tipo di professioni intellettuali hanno il dovere di farlo con diligenza. Ebbene il concetto di diligenza è necessariamente variabile: muta al cambiare del contesto sociale, politico, geografico ed è ancorato ai tempi, alle abitudini sociali, ai rapporti economici e al clima politico; nonché al variare dell’attività professionale esercitata.
La variabilità del concetto di diligenza si è evince già dall’origine etimologica del termine per nulla univoca; riconducendosi talvolta al verbo “diligo”, ossia “aver caro”, talaltra a “dis-lego” inteso come discernimento nel comprendere.
Nel linguaggio giuridico il termine è stato adoperato sin dal Code Napoléon, per indicare la misura di attenzione cui tutti i debitori sono tenuti nell’adempiere ai propri doveri ed è stato mutuato anche nel nostro Codice Civile nell’accezione, potremo dire romantica, di “diligenza del buon padre di famiglia” e di diligenza adeguata alla natura dell’attività esercitata.
La scelta del criterio della diligenza, caratterizzato da genericità e mutevolezza, risulta però difficilmente adeguata ad assicurare la certezza del diritto.
La indeterminatezza del concetto di diligenza e la necessità di rimettere all’arbitrio di un giudice il compito di riempire la stessa di contenuto, hanno probabilmente indotto il legislatore a riconoscere un crescente ruolo a criteri normativi di determinazione del contenuto del criterio della diligenza, allontanando così il timore dell’incontrollabile soggettivismo della decisione giudiziale.
La variabilità del parametro della diligenza si ripercuote, infatti, in una rilevante difficoltà di accertamento della colpa del debitore tale da aver indotto il legislatore ad attribuire una crescente rilevanza giuridica esterna ai codici di condotta o di «autodisciplina» dettati da organismi pubblici o da associazioni private in alcuni determinati settori di mercato. Il ricorso a tali codici è finalizzato a fornire un parametro oggettivo per la ricognizione dei doveri di diligenza posti a carico del debitore/professionista.
I tentativi di conferire al criterio della diligenza maggiore certezza e minore discrezionalità all’autorità giudiziaria sono stati svariati, ma un ruolo di certo fondamentale è svolto dai codici deontologici: che contengono regole di comportamento in base alle quali valutare la diligenza e la correttezza del professionista. Si tratta notoriamente di forme di autonomia privata che hanno ad oggetto alcuni canoni di comportamento e di correttezza professionale concernenti gli appartenenti ad una certa arte o professione. Le norme deontologiche possono presentarsi come la codificazione di principi tradizionali e consuetudinari, oppure come l’adeguamento dei canoni professionali a nuove esigenze dell’arte. Il controllo sull’osservanza dei precetti deontologici, conseguentemente, è rimesso ad organi interni al gruppo professionale, che esercitano il potere disciplinare nei confronti dei soggetti appartenenti a quel gruppo. Di solito, quindi, il professionista è tenuto al rispetto delle regole deontologiche ma la violazione di queste regole può determinare una sanzione disciplinare comminata dall’Organo rappresentativo della categoria professionale; al più la violazione della regola può rappresentare un parametro per la valutazione della condotta del professionista in giudizio di responsabilità civile (finalizzato al risarcimento del danno).
Una eccezione è rappresentata dal codice deontologico dei giornalisti per il trattamento dei dati personali (art. 12 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e succ. modifiche). Questo codice contiene le regole essenziali cui il giornalista è tenuto per il trattamento dei dati personali e il rispetto delle stesse è condizione essenziale “per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali”. La violazione di queste regole nella divulgazione dei dati espone il giornalista non solo ad una responsabilità disciplinare, ma soprattutto ad una responsabilità civile e dunque lo obbliga al risarcimento del danno provocato.
La scelta del legislatore nazionale di rinviare ad un codice deontologico la individuazione delle regole da rispettare per il lecito trattamento dei dati per finalità giornalistiche è di certo apprezzabile e si può agevolmente rinvenire nella flessibilità e nel contenuto tecnico di tale corpus di regole.
I codici deontologici sono, infatti, caratterizzati da flessibilità in un grado ben superiore a quello della legge, nei confronti della quale possono fungere da disciplina di integrazione e di attuazione in concreto. Diversamente dalla legge, il cui procedimento di formazione è notoriamente più complesso, i codici deontologici assicurano una maggiore rapidità di approvazione e una più specifica disciplina, rispetto ad una eventuale normativa di rango legislativo, la quale non potrebbe spingersi in tale direzione data la minuziosità dei precetti che dovrebbero essere emanati per ciascuna categoria.
A ciò si aggiunga altresì che la veloce evoluzione e modifica della materia del trattamento dei dati personali, strettamente connessa alla digitalizzazione delle comunicazioni, mal si concilia con gli ordinari tempi di promulgazione di una norma di rango legislativo.
Risulta allora evidente che il codice deontologico giornalistico per il trattamento dei dati personali, per la sua formazione e la sua efficacia, rappresenta un esempio peculiare di codice la cui esperienza potrebbe estendersi anche alle altre professioni conferendo ai codici deontologici un ruolo determinante nel giudizio di responsabilità dei professionisti ed assicurando quindi una maggiore certezza del diritto.