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Def: un documento ambizioso ma prudente

Il 2022 avrebbe dovuto essere l’anno della ripresa, dopo il biennio segnato dall’emergenza pandemica, e per questo fino a poco tempo fa ci si sarebbe aspettati un Documento di Economia e Finanza focalizzato sui punti collaterali al PNRR e di stimolo alla crescita. L’invasione russa in Ucraina, invece, ha ribaltato le aspettative creando un nuovo quadro di grande incertezza che, ovviamente, diventa lo scenario su cui costruire le previsioni di spesa e di investimento da parte del Governo e da qui nasce il DEF appena varato dal Consiglio dei Ministri.

In questo quadro la prima cosa che si rileva, nell’analisi del documento, è l’applicazione anche per quest’anno, così come già stabilito dalla Commissione Europea, della clausola che permetterebbe, in caso di necessità, di deviare dal percorso di rientro nei parametri del Patto di Stabilità e Crescita, la cosiddetta General Escape Clause (GEC) proprio per far fronte al peggioramento del quadro economico innescato dalla crisi ucraina e dal rialzo dei prezzi energetici e delle materie prime, nonché dall’eventuale rallentamento della crescita nei principali mercati d’esportazione italiana.

Il rialzo dei prezzi energetici, unito a quello relativo agli alimenti e alle materie prime ha innescato un riscaldamento dell’inflazione che, a marzo, ha toccato il 6,7% su base annua; anche se, epurato dai rincari provenienti dal mercato (c.d. inflazione importata) il tasso di inflazione rientrerebbe nei parametri obiettivo della Banca Centrale Europea, il 2% annuo cioè, questa impennata ha spinto le principali banche centrali a rivedere gli orientamenti di politica monetaria in un’ottica restrittiva e non è del tutto escluso un rialzo dei tassi anche in Europa dopo la riduzione progressiva del Quantitative Easing.

Seguendo questa impostazione, di fatto piuttosto pessimistica, il Governo ha modificato le stime di crescita indicate nel NADEF 2021 portando la previsione del 2022 dal 4,7%, forze già fin troppo ottimistica, a un 2,9% per poi scendere al 2,3% nel 2023, al 1,8% nel 2024 e all’1,5% nel 2025.

Il cambiamento delle aspettative di crescita si riflettono, poi, anche sul piano di normalizzazione della finanza pubblica, prevedendo un rientro dall’indebitamento, esploso ulteriormente negli anni della pandemia, più lento anche per via dei provvedimenti per il contenimento dei costi energetici a famiglie e imprese e tutte le misure di finanza pubblica, così, vengono modificate, a cascata, per permettere il raggiungimento degli obiettivi prefissati.

I parametri di disavanzo indicati nel NADEF vengono, però, confermati, dal 5,6% per quest’anno per ridursi progressivamente fino al 2,8% nel 2025 permettendo un margine per misure espansive che permettono di prevedere un obiettivo di crescita programmatica lievemente superiore a quello tendenziale (3,1% nel 2022 e 2,4% nel 2023) che si dovrebbero riflettere positivamente dal lato dell’occupazione e nella riduzione del debito pubblico che nel 2021 aveva toccato il 150,5% del PIL e che già quest’anno vedrà una riduzione di oltre tre punti e mezzo percentuale per arrivare al 141% circa, al lordo delle quote di pertinenza dei prestiti agli Stati membri dell’Unione Economica e Monetaria e del contributo al capitale al MES (Meccanismo Europeo di Stabilità).

Ma cosa comporta tutto questo, alla fine? In soldoni gli interventi programmati (non si calcolano, ovviamente i cantieri relativi al PNRR che sono tutt’altro e trascendono le previsioni del DEF) possono essere riassunti in sei aree che sono:

  • energia e carburanti;
  • indebitamento;
  • pressione fiscale;
  • spesa militare
  • gestione del periodo post-pandemico
  • riforme programmate.

La situazione contingente, come già analizzato in uno scorso articolo, ha mostrato che la politica energetica italiana non sia sostenibile e risenta in maniera troppo pesante degli shock esogeni, sia dal lato dell’approvvigionamento sia dal lato del costo finale, fin troppo sovraccarico di elementi fiscali che fungono da moltiplicatore agli aumenti del costo delle materie prime. Il primo, seppur provvisorio, intervento sulle accise dei carburanti ha mostrato a tutti quanto sia questo peso imposto dallo stato sui costi finali ed è evidente che, per garantire una sostenibilità di lungo periodo qui occorre intervenire in maniera strutturale.

Anche dal lato dell’approvvigionamento la crisi ucraina ha mostrato come non sia assolutamente efficiente dipendere in maniera troppo elevata da un unico fornitore e sia necessario allargare la platea di soggetti da cui acquistare le fonti energetiche e le vie di ottenimento delle forniture. Dopo anni di sindrome NIMBY, quindi, sembra che si cominci a ragionare su nuove infrastrutture di trasporto degli idrocarburi, anche via nave con l’installazione di rigassificatori per poterle sbarcare e la ripresa dell’estrazione di gas e petrolio dai giacimenti nazionali, in attesa di nuove fonti energetiche che, però, necessitano di anni per l’installazione, come per le centrali nucleari ad esempio. Già l’apertura di nuovi canali dovrebbe “raffreddare” i prezzi sul mercato, consentendo il progressivo disimpegno erariale per il contenimento delle bollette ma solo un piano di lungo respiro potrà dare un vero vantaggio, anche tendenziale.

Dal lato dell’indebitamento già abbiamo visto nella lunga premessa, è stato imboccato un “sentiero di rientro” che permetterà, seppur lentamente, di ridurre la pressione del debito sulla finanza pubblica e il riscaldamento dell’inflazione, comunque, porterà un miglioramento sui saldi reali nazionali anche se si tratta, in effetti, solo di una boccata d’aria alla fine. La pressione fiscale si abbassa, poco, ma lo fa. Passa dal 43,5% del 2021 al 43,1% di quest’anno; non certo una diminuzione che possa dare un vero e proprio miglioramento alle aspettative di cittadini e imprese ma se il progressivo calo continuasse anche l’anno prossimo lo scenario potrebbe cambiare.

Una cosa interessante è che, anche in questo caso, da un sindacato, come già nel 2019, si sia sollevata la richiesta di un’imposta di solidarietà dell’1% per i patrimoni sopra 1,2mln di euro mostrando come certe sacche ideologiche non riescano a comprendere la realtà, poiché in un periodo critico, per il post pandemia e l’azione bellica in corso, andare a chiedere nuove imposte che colpirebbero i redditi già sotto pressione (perché tutte le imposte patrimoniali hanno un effetto reddito) contribuirebbe a deteriorare ulteriormente lo scenario e la dichiarazione di Mario Draghi sul no a nuove tasse è sicuramente importante in questo senso.

Sulla questione dell’innalzamento della spesa militare si è letto tanto in questi giorni, da un lato, il limite del 2% del PIL, rappresenta una richiesta esistente da tempi non sospetti da parte dei vertici NATO per non dipendere quasi solo dagli investimenti USA dall’altra potrebbe essere un’occasione per stimolare ulteriormente gli investimenti in R&D che, storicamente, partono dall’ambito militare per, poi, approdare all’uso civile come nel caso della tecnologia così come nel caso della medicina. Seppur, nel comune sentire, è diffusa l’associazione spesa militare = nuove armi molte innovazioni che abbiano rivoluzionato, in meglio, la vita delle persone nascono proprio in questo ambito, dai CD per la conservazione dei dati e per ascoltare musica (prima dell’avvento dello streaming via internet, che nacque anch’esso in ambito militare, almeno) così come alcune leghe metalliche o polimeri con cui vengono costruiti elettrodomestici e attrezzature medicali. Se ben gestita la spesa militare potrebbe essere un volano per lo sviluppo e per la crescita anche se, moralmente, qualche riserva è logico che sorga.

Gli ultimi due punti sono, poi, di vitale importanza perché finalmente si sta uscendo definitivamente dalla crisi innescata dalla pandemia relativa al virus SARS-Cov-2 ed è necessario che l’azione governativa sia indirizzata alla ricostruzione del sistema economico gravemente colpito dalle misure di contrasto ai contagi.

Non è certo questo il luogo per discutere sulla reale opportunità di queste ultime ma è indubbio che i lockdown e le restrizioni abbiano apportato diversi danni, sia alle imprese sia alle abitudini dei cittadini, colpendo sia la produzione sia i consumi, l’azione programmata ha l’obiettivo di recuperare quanto si sia perso, sia a livello di tessuto industriale sia a livello di occupazione e reddito per spingere la crescita senza la quale non è possibile preservare né il benessere generale della popolazione né la struttura stessa dello stato che, comunque, va profondamente riformata alla ricerca di una maggiore efficienza ed economicità sia a livello contabile tout court sia a livello di supporto all’economia nazionale stessa.

Qui entra il capitolo delle riforme strutturali programmate che l’Italia attende da fin troppi anni per poter sbloccare una situazione stagnante che si trascina almeno dagli anni 90 del secolo scorso e che si interseca strettamente con tutti gli altri punti trattati nel DEF, dal fisco (che è anche il più pesante aggravio sulla spesa energetica) al debito pubblico.

In definitiva il documento di quest’anno si presenta in maniera ambiziosa, seppur prudente per via della nuova criticità rappresentata dalla guerra in Ucraina, e presenta un obiettivo di medio termine sicuramente interessante anche se la fotografia dello stato della nazione contingente non è certo rassicurante.

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