Sorella e fratello omosessuale, sono molto pensoso e attento a ciò che accade in questi giorni in Italia a proposito del cosiddetto Ddl Zan. Per comodità ti chiamerò Gabriele, come l’angelo che portò l’annuncio della salvezza. Ti dico con franchezza che temo che nei prossimi giorni si potrebbe consumare una grande ingiustizia, di cui, sono convinto, nemmeno tu saresti contento. In questi 32 anni di sacerdozio le volte che io e te abbiamo parlato fino a tarda notte, ci siamo confrontati, abbiamo riso, pregato insieme sono veramente tante. Il mio pensiero lo conosci. Sai bene che sono stato, e sempre rimarrò, accanto al più debole, al più fragile, al più povero. Sarebbe bello, se tu oggi, Gabriele, prendendo la parola, potessi raccontare della nostra amicizia. L’amicizia tra un prete di periferia e un fratello omosessuale. Ma che dico: fratello omosessuale? Fratello e basta.
Quando sei venuto a Messa, quando mi hai parlato dei tuoi problemi, quando mi hai aperto il cuore, mai – e dico mai – ho pensato al tuo orientamento sessuale. Ricordi quella volta che girammo tutta Napoli per un caffè? Nessun bar ci andava bene perché nessuno dei due voleva interrompere la chiacchierata in corso. Ti ricordi di quando mi prendevi in giro per la castità? Adesso, sai? Corro il rischio di passare per omofobo. Ti confesso, Gabriele, che ancora non ho capito che cosa voglia dire con esattezza essere “omofobo”. Credo che i cultori della nostra bella lingua italiana dovrebbero darci, a riguardo, qualche chiarimento. Perché, negli anni che verranno, questa parola rischia di essere sempre più ambigua e fare più male di una lama a doppio taglio.
Dal punto di vista etimologico “omofobo” dovrebbe significare paura del fratello omosessuale. Se così è, non solo non sono omofobo, ma mi dico, senza ombra di dubbio, omo – filo. Perché ti voglio bene, voglio il tuo bene, ti auguro ogni bene; perché so che, come me, sei stato creato a immagine somiglianza di Dio. Non ti nascondo, però, che il clima di questi giorni non mi piace. Mi ricorda – spero di sbagliarmi – la caccia all’untore di manzoniana memoria. Sai bene, Gabriele, che il ddl Zan è più complesso di quanto voglia apparire. Una legge a tutela della tua incolumità, della tua dignità, dei tuoi diritti non può che trovarmi d’accordo. Che chi si permette di irridere la tua sessualità venga punito, è per me un invito a cena.
Ma quel ddl dice anche altro, e sai bene che è su quell’altro che ho tante perplessità. Anche per te, credimi. Tanti cristiani, magistrati, uomini e donne dello spettacolo, femministe, parlamentari, tanti appartenenti alla stessa galassia LGBT non sono d’accordo con quel ddl. Chi ha ragione? Il fatto stesso che non se ne discuta a cuor sereno, ma a suon di offese ( vedi le orribili minacce fatte dai fratelli tran alle sorelle lesbiche a Bologna) sta a alle dire che questo ddl divide pericolosamente la nostra società in un momento già di per sé tragico. C’è in ballo il diritto alla libertà di parola, di espressione, di opinione. Potrò, in futuro, continuare a esprimere le mie idee, scrivere i mie articoli, fare le mie catechesi senza passare per omofobo ed essere trascinato in tribunale? Capisci che se dovesse accadere si sono invertiti i ruoli, ma sarebbe rimasta l’ingiustizia.
Ti chiedo di avere pazienza, ma mi spieghi in parole povere che vuol dire “identità di genere”? Nel ddl è scritto che «s’intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrisponde al sesso indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione». Ho letto che in giro per il mondo già ci sono episodi imbarazzanti a riguardo. Ma che vuol dire? Che un fratello trans che si sente donna può gareggiare, per esempio, nello sport, con le donne verso le quali avrebbe un vantaggio fin dall’inizio? O che un detenuto maschio affermando di sentirsi donna può essere recluso nel reparto femminile? Io non voglio, Gabriele, che ti venga negato nessun diritto, ma non voglio nemmeno che venga negato ai più piccoli che non hanno la possibilità di poterli fare valere.
Prendiamo ad esempio il discorso della paternità – maternità. Il figlio è un dono immenso, desiderarlo è comprensibile. Ma non è un diritto. Tu credi che l’utero in affitto possa risolvere il problema? Io sono convinto che un diritto, quando è veramente tale, non debba ledere il diritto di nessuno. Ogni bambino ha il diritto di rimanere con la sua mamma. Il bambino è una persona, un essere umano, non è una merce da comprare e nemmeno un dono da regalare. Non esiste l’utero, o come ho letto recentemente, una “pancia”, esiste una donna, dignitosamente donna, stupendamente donna, quasi certamente povera, alla quale viene chiesto di portare nella propria carne una gravidanza, con tutti i rischi di ordine fisici, psicologici, affettivi, e poi privarla del suo bambino.
Io vorrò continuare a lottare contro ogni abuso dei ricchi sulla pelle dei poveri; dei grandi sulla pelle dei piccoli; dei nati sulla pelle dei non ancora nati. Io vorrò continuare a incontrare, discutere, litigare, scherzare con Gabriele, senza fargli pesare il mio essere prete, senza che mi faccia pesare il suo essere omosessuale. Offendere un gay perché gay è un obbrobrio. E io mi batterò, come ho sempre fatto, perché non accada. Mettere alla gogna un prete e calunniarlo come “omofobo” per le sue idee, la sua fede, le sue convinzioni, è lo stesso obbrobrio, uguale e contrario. E spero che tu, Gabriele, ti batterai perché questo scempio non abbia ad accadere mai.