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Dazio o non dazio, questo è il dilemma…

Uno degli spauracchi legati al ritorno di Donald Trump alla Casa Banca è sicuramente legato al suo programma di rafforzamento del mercato interno americano con insourcing della produzione industriale e l’eventuale apposizione di nuovi dazi all’import per proteggere la produzione locale. La questione non è certo nuova, poiché già nel 2016 alla sua prima elezione Trump aveva abbondantemente parlato dell’imposizione di nuove tariffe doganali anche se, alla fine, aveva meramente usato la minaccia di una loro elevazione per costringere al tavolo di trattativa i partner internazionale e stipulare nuovi accordi più vantaggiosi per gli USA.

Per l’Italia, in ogni caso, un inasprimento del protezionismo americano potrebbe costare caro visto che gli Stati Uniti valgono poco più del 10% dell’export per circa 67,3 miliardi di euro; se veramente l’entrante amministrazione repubblicana approvasse una crescita del 10% sulle tariffe esistenti il costo aggiuntivo per il nostro Paese potrebbe arrivare a 7 miliardi all’anno.

Le cifre non sono certo incoraggianti, perché un aumento sensibile dei prezzi per via fiscale potrebbe, di fatto, spingere certe categorie merceologiche fuori mercato o ridurre sensibilmente i margini delle aziende esportatrici che dovrebbero contenere i loro guadagni per contenere l’effetto sui prezzi finali, cosa che  renderebbe l’accesso alla piazza oltreoceano meno redditizio e conveniente ma da qui sorgono le domande basilari, in questo caso, “quanto inciderebbero realmente i nuovi dazi?” e “la minaccia è veramente credibile?”

La risposta alla prima questione non è esattamente semplice da dare. Contrariamente al comune sentire le merci principali dirette in USA non sono moda e agroalimentare, categorie che, nella componente più di massa, sono molto elastiche al prezzo spingendo, in caso di rincaro, su succedanei locali o su altri a minor costo ma autoveicoli, medicinali, impiantistica industriale e piastrelle. Come si vede questi sono beni mediamente ad alto valore aggiunto e con un target molto preciso e piuttosto rigido ai cambi di prezzo perché o indirizzato a segmenti precisi o coperto da tutele, quali i brevetti internazionali, che non lasciano molto spazio a prodotti sostitutivi.

Certo, come avvenne con le sanzioni verso la Federazione Russa, alcune aziende potrebbero trovarsi in difficoltà, perché inserite in un mercato altamente concorrenziale o perché produttrici di beni facilmente sostituibili e con una concentrazione di clienti troppo elevata sul mercato in questione ma in generale non si dovrebbero registrare contraccolpi pesanti anche nell’ipotesi peggiore. E qui si arriva alla seconda domanda, forse la più importante.

Bisogna premettere che gli USA, contrariamente a quanto si creda, non siano uno stato così improntato al “liberismo”, anzi si tratta di una delle zone più protezionistiche esistenti (come l’UE, del resto).

Esistono da sempre dazi anche piuttosto pesanti sulle merci importate (li si può consultare all’URL hts.usitc.gov) e, salvo degli interventi mirati nel periodo della scorsa presidenza Trump verso la Cina e su pannelli solari e lavatrici coreane, l’ultimo intervento generalizzato fu attuato nell’ultimo anno del mandato di Barak Obama anche se andarono a regime proprio nei primi mesi dell’amministrazione seguente. Già molte aziende estere, come l’italiana Barilla, infatti per aggirare questi ostacoli di ingresso sul mercato, da tempo, hanno aperto stabilimenti per la produzione in loco dei beni che saranno, poi, commercializzati sul territorio americano, per gli altri si tratta di un costo preventivato e già scontato nei prezzi finali che, comunque, potenzialmente potrebbero essere inferiori a quelli praticati in Europa poiché le sales tax applicate nei vari stati della federazione sono ben inferiori alle aliquote IVA standard nel vecchio continente. Di fronte a questo scenario è evidente che la questione “dazi” possa diventare, nel caso, una carta in più da giocare nei futuri accordi commerciali piuttosto che una vera e propria spada di Damocle che oscilli sulla testa dell’industria europea.

In effetti il modus operandi di Trump durante il suo scorso mandato è stato improntato sull’apertura di diversi tavoli brandendo le armi a disposizione degli Stati Uniti, militari o commerciali, per poter giungere al risultato desiderato tanto che il quadriennio 2016-2020 è stato caratterizzato da un periodo di strana, permettetemi il temine, e relativa tranquillità dal lato bellico e di tensioni internazionali, tutte le crisi si sono risolte in una trattativa, anche serrata, per ottenere dei trattati vantaggiosi soprattutto per l’America ma, spesso, anche per gli alleati.

Sicuramente il neo-POTUS (al secondo mandato non consecutivo, cosa certo non comune) è un personaggio istrionico e imprevedibile ma il partito l’ha affiancato a un vice considerato da tutti molto pragmatico nella visione geopolitica come J.D. Vance che difficilmente supporterà dei colpi di testa che, seppur ventilati da una certa vulgata mediatica, il primo mandato del tycoon fa pensare molto improbabili.

Se dal lato militare si potrebbe assistere a un progressivo disimpegno degli USA dal ruolo di “poliziotto globale” verso un ruolo più da partner strategico per gli alleati dal lato economico non è credibile un ricorso all’arma protezionistica in maniera indiscriminata, probabilmente si vedrà un irrigidimento verso la Cina per cui la Federazione rappresenta ancora il primo mercato di sbocco per i suoi prodotti ma tante aziende americane hanno la propria produzione là, nell’estremo oriente, per cui è piuttosto difficile che si apra una guerra commerciale con il Dragone mentre è possibile che si voglia ridiscutere i termini per l’accesso alla piazza statunitense per le merci.

Anche se i desiderata portano verso un insourcing della produzione per rilocalizzare il settore manifatturiero difficilmente Apple o HP rinunceranno alla partnership con Foxconn per l’assemblaggio dei propri dispositivi come sempre Apple con Qualcomm, Nvidia e AMD avrebbero diversi problemi a riportarsi “in casa” la produzione dei chip oggi realizzati da TSMC, ad esempio.

Stesso discorso può essere rivolto all’Europa con le varie merci importate tra New York e Los Angeles, per citare due città ai lati estremi degli USA, che non potrebbero essere prodotte direttamente da aziende autoctone, almeno non in tempi brevi.

Diciamo, quindi, che seppur la tentazione di un ritorno a politiche mercantiliste, quasi come se si tornasse ai tempi della Francia di Quesnay o Turgot, sia forte la Realpolitik spingerà, credibilmente, a un approccio molto più diplomatico e a un proseguimento dell’opera di ricontrattazione dei trattati commerciali iniziata otto anni fa.

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