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Crisi economica, perché non si può vivere sempre a debito

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“Per ogni problema complesso, c’è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata.”
(George Bernard Shaw)

L’impatto dell’epidemia di Covid 19 non ha avuto solo un aspetto sanitario ma anche un rilevante aspetto economico di sui, ancora, non se ne vede esattamente la portata.
A lanciare l’allarme è Confcommercio che indica come l’effetto combinato delle misure di contenimento dell’infezione da coronavirus e il crollo dei consumi a seguito dei vari tipi di lockdown messi in atto (lo stimatore a fine anno è un -10,8% pari a circa 120mld di euro in meno rispetto al 2019) abbia portato alla chiusura 390’000 imprese nel commercio non alimentare a fronte di 85’000 nuove aperture.

Il saldo finale, quindi, è di 305’000 circa imprese in meno a inizio 2021. Intendiamoci, la chiusura anche di migliaia di imprese, in sé, non è un dato preoccupante se compensato dalla nascita di nuove e più performanti, si rientra nel principio di distruzione creativa ipotizzato da Schumpeter ma quando il saldo complessivo indichi un calo di oltre l’11% (11,3% per la precisione) del numero totale di operatori sul mercato la cosa diventa preoccupante.

Osservando lo spaccato dei settori più colpiti si vede che nell’ambito del commercio abbigliamento e calzature registrano la chiusura del 17,1% delle imprese lì operanti, gli ambulanti avranno un 11,8% in meno di partite IVA e faremo a meno del 10,1% dei distributori di carburante sul territorio nazionale; nei servizi, invece, le maggiori perdite di imprese si registrano tra le agenzie di viaggio con un 21,7% in meno, tra i bar e i ristoranti dove hanno chiusi il 14,4% dei locali e nei trasporti con il 14,2%.

Sono numeri apocalittici, volendo vedere ma ancora non si è considerata tutta la filiera del tempo libero che, tra attività artistiche, sportive e di intrattenimento, registra la sparizione del 33% delle imprese operanti nel segmento.

Quando a marzo, poi, sfumerà il blocco dei licenziamenti imposto dal Governo e sussidiato con la cassa integrazione, fortunatamente sostenuta anche dal fondo SURE europeo, tra le imprese superstiti, credibilmente, si vedrà una forte riduzione delle risorse impiegate che, brutalmente, potrebbe voler dire almeno un 10% in meno di posti di lavoro finora offerti dalle PMI.

Certo a fronte di numeri come questi qualcuno potrebbe ricordare come già nel 2008, quando scoppiò la crisi dei subprime, non ce la si sia vista molto bene con la crisi che culminò con la lettera della BCE e il titolo de Il Sole 24 Ore divenuto proverbiale “Fate presto” nel 2011.

Beh, volendo snocciolare i veri dati che giunsero dalla CGIA di Mestre sulle quasi 340’000 imprese chiuse nel 2008 vengono parzialmente smentiti da Cerved che indica come negli anni di crisi (2008-2015) siano scomparse 82’000 imprese.

La differenza vera, però, guardando i dati annuali è che allora la crisi fu di mercato e nel mercato trovò la soluzione benché, come al solito, in Italia si prolungò a lungo per via delle criticità strutturali del suo modello economico fatto di alte imposte e alti tassi di spesa, soprattutto clientelare perché indirizzata a sussidi e non a investimenti, che bloccò la ripresa anche per via dell’aggravio sul prelievo voluto dal governo Monti, prima, e da quello Letta, poi, per garantire la stabilità dei conti pubblici ma che, per contro, ne peggiorò i parametri spingendo l’economia nazionale in recessione e non riuscendo a ridurre lo stock di debito per via del conseguente peggioramento dei saldi dei conti.

La crisi odierna, a parte i timori per gli effetti della pandemia ancora in corso e che, forse, con l’inizio delle vaccinazioni di massa potrà vedere la sua fine, è stata ampiamente indotta dalle decisioni del Governo Italiano e dalla sua condotta ondivaga e incapace di una programmazione credibile delle misure di contenimento.

Il primo lockdown fu uno dei più lunghi e restrittivi tra i paesi OCSE e l’incertezza sulla stagione estiva unita ai provvedimenti estemporanei presi dall’autunno inoltrai in avanti, senza opportuni sostegni alle imprese (già si è parlato ampiamente dell’inconsistenza dei ristori previsti e del sostegno alle aziende ex c.d. Decreto Liquidità che tanto deve al sistema creditizio quanto poco all’azione della politica) altro non hanno fatto che creare un clima di incertezza che ha depresso i consumi, anche per l’impossibilità di andare a fare acquisti molte volte invero (con Amazon che ancora ringrazia), e ha creato un “buco nei conti” non indifferente nelle piccole aziende, soprattutto nel settore della ristorazione, dello sport e del tempo libero.

Una palestra, ad esempio, pur mettendo in cassa integrazione gli istruttori nel periodo di chiusura forzata deve pagare fitti e utenze, in ogni caso, benché gli oneri finanziari siano stati agevolati dalle banche ancor prima che dalla legge e che ristori si possono dare ad esse? Semplicemente molte chiudono e non riapriranno, con conseguente perdita di indotto e gettito fiscale.

Al problema sanitario, infatti, si è risposto con il sistema più semplice esistente, applicato fin dall’epoca antica e ancor più in epoca medioevale: la quarantena.
Nulla si è fatto, nonostante task force, commissari da hoc, etc, per i punti più critici nel sistema Paese: trasporti e sanità territoriale.

Certo sarebbe stato assai costoso prevedere un aumento delle carrozze e delle corse a livello di trasporto pubblico, così come rafforzare i presidi territoriali per cercare di ridurre la pressione sugli ospedali con cure e diagnosi precoci, per quanto possibile, ma no, si è preferito mantenere una struttura emergenziale per tutto il tempo, di fatto perdendo tempo nei mesi primaverili ed estivi senza programmare un serio contrasto ad un eventuale secondo picco epidemico autunnale, tra l’altro ampiamente previsto, e il risultato lo abbiamo sentito in ogni telegiornale ma dal lato dell’impatto sulle imprese si preferito mantenere un taglio basso.

Sarà per evitare le solite obiezioni sul tipo “bisogna pensare prima alla salute…” che va bene ma è dal lavoro delle imprese che provengono i fondi per sostenere il SSN e tutto l’impianto dello stato.

Milton Friedman indicava, citando a sua volta Robert E. Heinlein, che “non esistono pasti gratis”, infatti prima o poi il conto qualcuno dovrà pagarlo e, non potendo vivere per sempre a debito, significa che questo sarà sempre più sulle spalle delle imposte di chi lavori che, come visto, sarà una categoria che si assottiglierà nel prossimo futuro.

I fondi europei, dal SURE al Next Generation EU, altro non fanno che spalmare il costo nel tempo e socializzarlo tra tutti gli Stati membri scommettendo sulla ripresa futura per saldare le partite aperte in questi mesi ma, qui arriva il punto focale del ragionamento, se le imprese chiudono e non vengono rimpiazzate, se i lavoratori diminuiscono e aumentano i sussidiati, se il governo chiude le attività e non permette loro di investire e guadagnare, come si pagherà quel conto?

Con il Reddito di Cittadinanza e con il Recovery Fund, che devono essere a loro volta finanziati?

Occorre ancora ricordare, come diceva Margaret Thatcher, che non esistano soldi pubblici ma solo quelli che siano stati prelevati dalle tasche di cittadini e imprese?

Se questi ultimo non producessero più reddito il sistema si incepperebbe definitivamente e la moneta non nasce ex nihilo come ingenuamente credono cartalisti e oppositori delle “valute fiat”. È evidente, quindi, che la citazione di Shaw in incipit sia più che opportuna, nel valutare la gestione di questi ultimi mesi, particolarmente in Italia.

Matteo Gianola: