Credenti, non creduloni. Suona quanto mai attuale il bonario monito di
Giacomo Biffi, cardinale e arcivescovo metropolita di Bologna.”La distinzione più adeguata tra gli uomini del nostro tempo parrebbe non tanto tra
credenti e non credenti. Quanto tra credenti e creduloni”. Del resto il Magistero parla chiaro sulla totale complementarità tra fede e scienza. Non può quindi che lasciare allibiti il revival di un cavallo di battaglia delle epoche più buie. Il braccio di ferro tra fede e ragione. Le dilanianti divisioni sul contrasto alla pandemia hanno fatto riemergere strumentalmente un’antinomia fra fides e ratio che era stata ridimensionata a vetusto armamentario ideologico per gli opposti estremismi. L’errore di scontrarsi sui vaccini, anche in nome di presunte ragioni identitarie, era già stato confutato nell’enciclica Fides et ratio del 1998 di San Giovanni Paolo II. Il cristianesimo non presuppone affatto un conflitto inevitabile tra la fede soprannaturale e il progresso scientifico. Per sua natura e missione la Chiesa è lumen, luce, perché sul suo volto si riflette la luce di Cristo, che è Lumen Gentium (LG 1). Questa luce però può essere intesa in due modi differenti ma che non si
escludono. Innanzitutto come “faro”, la cui caratteristica è quella di dare luce, ma di essere fermo, poggiato su solido fondamento. Ma può essere intesa anche come “fiaccola”. La Chiesa ridona fiducia e speranza, come la luce del faro di un porto o di
una fiaccola portata in mezzo alla gente per illuminare coloro che hanno smarrito la rotta o si trovano in mezzo alla tempesta. Aprendo i lavori della 68ª Assemblea generale della Cei il 18 maggio 2015, papa Francesco ha chiesto ai vescovi italiani di essere non “piloti”, ma veri “pastori“. Più volte il pontefice ha fatto appello ad essere “vescovi pastori, non prìncipi“, usando immagini che erano già sue sin da quando reggeva la diocesi di Buenos Aires. Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger sono stati gli ultimi papi europei, cioè immersi sino in fondo nella storia del loro continente. Il primo ha avuto il grande merito di assumere il tema della libertà e della liberazione dei popoli dalla schiavitù del comunismo, ma entrambi non hanno saputo-potuto arrestare la deriva individualista e liberista del modello di sviluppo. Ratzinger più di Wojtyla ha capito la crisi del modello capitalista e, dunque, dell’occidente, e la necessità di separare i destini della Chiesa da quel modello di sviluppo, lasciando e, in un certo senso preparando, la missione del suo successore. Di qui la necessità di pensare un nuovo modello di rapporto della Chiesa con il potere. Non più un rapporto diretto (come accadde nella stagione di Camillo Ruini alla guida della Cei), né mediato da un partito politico di cattolici (Montini), ma una netta separazione dei ruoli. Tutto il magistero di Francesco è fatto di profezia e non
di soluzioni tecniche. Come se dicesse: io ti faccio vedere ciò che tu non sei più in grado di vedere a causa delle cataratte storiche o ideologiche che ti riducono la vista. E cioè gli uomini-scarto. L’umanità e la fratellanza dei migranti. La catastrofe ecologica che minaccia la vita soprattutto dei popoli più poveri. Ecco io ti tolgo le cataratte che ti impediscono di vedere. Ma la soluzione tecnica a questi drammatici problemi la devi trovare tu. E’ responsabilità politica tua. Io non voglio invadere il terreno della tua autonomia. E della tua competenza di laico e soprattutto di laico impegnato in politica (LG 31). In questo senso, Francesco riconosce che ai laici è affidata la responsabilità di contemporaneizzare il messaggio cristiano. E, quindi, il dovere di coltivare una particolare intelligenza della storia e della modernità. Utilizzando tutti gli strumenti che la ricerca tecnologica consente. Restando padroni di sé. Della propria vita. E della propria libertà.