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Per uccidere una creatura bisogna mentire

Il 28 dicembre la Chiesa venera come martiri, con il nome di Santi Innocenti, i bambini dai due anni in giù del territorio di Betlemme di cui l’empio Erode ordinò l’uccisione. Come sappiamo dal Vangelo di Matteo Erode voleva eliminare Gesù dopo essere stato informato della sua nascita dai Magi, venuti a dall’oriente a Gerusalemme per sapere dove fosse nato “il re dei Giudei” che desideravano adorare perché ne avevano visto sorgere la stella.

Questi bambini sono onorati come martiri fin dai primi secoli. Purtroppo la “strage degli innocenti” si è ripetuta tante volte nella storia. Nella modernità, poi, assistiamo ad un’enorme strage legale: quella dei bambini che vivono e crescono sotto il cuore della mamma. La novità di questa strage (cui va aggiunta quella occulta procurata dalle pillole abortive e quella consumata nei laboratori attraverso le tecniche di fecondazione in vitro) è caratterizzata da tre elementi inediti in precedenza: la legittimazione giuridica, l’assistenza sanitaria, il consenso sociale.

L’obiettivo culturale e sociale è quello di cambiare le categorie del pensiero al punto da qualificare la “strage” “diritto”, “progresso”, “civiltà”, “conquista”, “libertà”. L’obiettivo, poi, è raggiunto nel momento in cui subentra un linguaggio menzognero che nasconde la verità, la maschera, per cancellare nella mente – nel pensiero, appunto – il fatto che ci sia in gioco la vita di un essere umano concreto, reale, unico e irripetibile. E allora, si parla di “grumo di cellule”, di “vita potenziale”, di “prodotto del concepimento”, invece che di “essere umano in età embrionale o fetale”, “bambino non nato”, “uno di noi”, “essere umano nella fase più giovane della sua esistenza”.

Per uccidere bisogna mentire. Complici sono la censura, il silenzio e l’“annacquamento” (la dispersione della questione aborto in un mare di altri problemi in modo da non prenderla in considerazione). Si aggiunga che la cultura abortista è stata fortemente sospinta da gruppi femministi che hanno orientato lo sguardo solamente verso la donna facendo dimenticare il figlio. Eppure, la grande maggioranza delle donne conserva l’innato coraggio e amore per la vita che nella gravidanza – abbraccio di una intensità irripetibile quanto a intimità e durata e al prototipo di ogni solidarietà – trova un’espressione particolarmente significativa.

Non vi è dubbio che smarcare la donna da una situazione di sudditanza rispetto all’uomo è di per sé giusto ma si è andati oltre travolgendo i figli in grembo per ripetere il modello maschile “libero” dall’ingombro di una gravidanza non voluta. Questa uguaglianza manifestamente grossolana si accompagna ad un concetto falso di libertà intesa come autodeterminazione, cioè come facoltà di decidere qualsiasi comportamento anche a costo di cancellare un altro. Ma questa è sopraffazione non libertà la quale, invece, presuppone il riconoscimento della dignità dell’altro e dunque il rispetto della sua vita.

Riconoscere l’altro come altro come portatore di una dignità uguale a quella di colui che guarda dimostra che la libertà attiene ai rapporti tra gli uomini e che il suo vertice, la sua massima realizzazione è l’amore. Non ci può essere amore senza libertà. La libertà è la condizione dell’amore. L’altro è la condizione della libertà, non la sua negazione. Per tutto un insieme di cose, parlare del diritto a nascere è ritenuto oggi divisivo, ma è vero il contrario. La vita che sboccia fa appello all’unità di tutti gli uomini e la tutela della vita nascente è davvero la “prima pietra” per costruire un “nuovo umanesimo”. E allora dobbiamo parlare del “popolo che attende di nascere” avendo fiducia nella nostra comune umanità.

In questi giorni sto lavorando alla pubblicazione di un testo che raccoglie gli scritti di mio padre sui vari temi delle giornate per la vita; il titolo è “Ritrovare speranza. La Giornata per la Vita: il concepito è uno di noi”. Pagine scritte da chi ha saputo ascoltare il “grido silenzioso” dei piccolissimi martiri innocenti riconoscendo che «questo piccolo essere che potrebbe stare nel palmo della mia mano, è uno di noi, un nostro fratello, accomunato dal nostro stesso destino. Bisogna avvertire lo stupore per la meraviglia che egli è. Ogni vita che inizia è frutto della fatica dell’universo, dello spazio e del tempo, dell’evoluzione e delle generazioni. […]

Di fronte a lui riproponiamo la domanda: è o non è, egli, il valore e il senso del creato? Se la risposta è positiva abbiamo detto che l’uomo è sempre un valore, è sempre un fine in ogni circostanza e quali che siano le condizioni della vita. Se “lui” è un valore, allora tutto il creato ha un senso, anche se percepito in modo intuitivo e misterioso. L’universo deve avere un significato, con il suo succedersi delle generazioni. Vale allora la pena di vivere. Non vi è spazio per il pessimismo.

Ogni figlio è l’istintiva speranza che il bene alla fine supererà il male, che il futuro potrà essere migliore del passato. Le delusioni e gli insuccessi non sono definitivi. Possiamo ancora ritentare, giocare la scommessa, tentare l’avventura: “Per ritrovare speranza bisogna avere il coraggio di dire la verità: la vita di ogni uomo è sacra”» (Carlo Casini, È questo il principio della riconciliazione, in “Sì alla vita”, a. VIII, n. 1 gennaio 1985, pp. 1-2).

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