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Covid, ecco le nuove terapie che rendono le varianti meno letali

Le caratteristiche cliniche, in termini di gravità di malattia, dell’infezione causata da Omicron (B.1.1.529) rispetto a Delta (B1.617.2) nei pazienti ospedalizzati, è stato oggetto di uno studio di coorte condotto a Bristol, nel Regno Unito (Hyams C. e altri). Da quanto osservato, risulta che l’infezione con la variante Omicron di SARS-CoV-2 determina una forma clinica meno grave rispetto a Delta, anche se rappresenta sempre un serio problema di sanità pubblica, specie se si verifica nelle persone anziane, che sono più facilmente soggette ad essere ospedalizzate.

Sempre in riferimento a quanto osservato nel corso dell’ondata Delta in Giappone, uno studio (Maeda H. e altri) condotto in quasi 2000 soggetti ha confermato l’efficacia dei vaccini anti COVID nel ridurre le forme sintomatiche causate dalla variante Delta. Una meta-analisi (Rezaul Karim Ripon e altri) effettuata dal 2020 al settembre 2022, avente come oggetto l’accettazione e la disponibilità dei vaccini anti COVID-19 da parte della popolazione afro-americana, è giunta alla conclusione che c’è stata, in questa particolare popolazione, una generale buona accettazione della vaccinazione, che è andata via via aumentando nel tempo, tanto che la percentuale finale degli esitanti è stata del 35%, a fronte del 65% dei vaccinati. Una completa revisione sistematica con meta-analisi (Jun Yasuhara e altri) ha affrontato il tema molto delicato e di grande impatto presso l’opinione pubblica, della possibile insorgenza di miocardite nei giovani e negli adolescenti vaccinati con vaccino a mRNA. Dalla mole di stadi considerati, è emerso che vi è una bassa incidenza di miocardite in questa fascia di età ed in ogni caso, l’evoluzione clinica di questa forma morbosa risulta essere favorevole. È comunque interessante riportare la conclusione di questo studio che, pur fornendo risultati rassicuranti, suggerisce di continuare a studiare e a monitorare questa condizione.

Intanto la comparsa della variante Omicron in Africa, è stata oggetto di uno studio (Fischer C e altri) che ha evidenziato come questa variante (BA.1) sia stata segnalata per la prima volta a metà novembre 2021 nel Sud Africa. Per comprendere esattamente il momento della sua comparsa, sono stati testati con metodica molecolare, i campioni ottenuti da oltre 13.000 pazienti affetti da COVID-19, osservati tra la metà del 2021 e l’inizio del 2022 in 22 paesi dell’Africa. Dai risultati ottenuti, è emerso che BA.1 ha rimpiazzato Delta in tutti i paesi dell’Africa meridionale, con un progressivo e rapido gradiente di diffusione che ha seguito, in questo continente, la direzione sud-nord. Il sequenziamento genico ha evidenziato che i ceppi di Omicron erano presenti fin dall’agosto 2021 in diversi paesi africani, cioè ben prima che diventasse la variante prevalente. Proprio sulla base di questo risultato lo studio conclude che il blocco dei viaggi è una misura inefficace, dal momento che spesso esistono varianti non ancora evidenziate che già circolano ampiamente nella popolazione.

In tema di nuove mutazioni, uno studio (Riddell A.C. e altri) ha segnalato l’insorgenza di nuove varianti del ceppo B.1.1.7 in tre pazienti con infezione avanzata da HIV ed affetti da una forma di lunga durata di COVID-19. In questi soggetti, per il perdurare dell’infezione da SARS-CoV-2, senz’altro favorita dallo stato di immunodepressione causato da HIV, si generano una serie di mutazioni dello spike che possono determinare l’immuno-evasione e l’aumentata trasmissione virale. Tra i meccanismi più efficaci per contrastare l’infezione virale, si annoverano le cellule natural killer (NK) che distruggono le cellule infettate ed impediscono lo sviluppo dell’infezione. In corso di COVID-19, questa importante funzione antivirale sarebbe alterata proprio per la presenza di una proteina non strutturale di SARS-CoV-2 (Nsp1) che riduce l’espressione del recettore presente su queste cellule, impedendo in questo modo la distruzione delle cellule infettate dal virus (Lee M.J e altri).

La sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) insorge in corso di COVID-19, quando il virus non c’è più e prevale lo stato di iperinfiammazione, anche se i meccanismi responsabili alla base di questa situazione clinica restano ancora ampiamente da chiarire. È da tempo segnalata la possibile insorgenza di una ripresa di positività del virus in soggetti trattati con antivirali, paxlovid e molnupinavir e per chiarire questo aspetto è stato condotto uno studio che ha coinvolto oltre 41.000 pazienti con COVID-19 ospedalizzati ad Hong Kong, di cui oltre 12.000 valutati anche per l’entità della carica virale (Grace Lai-Hung Wong e altri). Particolare attenzione è stata focalizzata su 746 pazienti che avevano assunto il molnupinavir e su 195 trattati con paxlovid. Dai risultati è emerso che la recrudescenza della positività virale risultava essere piuttosto bassa, sia nei pazienti che assumevano molnupinavir che paxlovid e queste terapie non si associavano ad un maggior rischio di morte. Da tutto questo scaturisce – a detta degli estensori della ricerca – che gli antivirali sono farmaci sicuri e possono quindi essere somministrati nelle fasi precoci dell’infezione. È stata valutata l’evoluzione genica di SARS-CoV-2 nei pazienti trattati con molnupinavir, paxlovid e in chi non assumeva alcun antivirale (Alteri C. e altri).

Da questa ricerca, che affronta un argomento fino ad oggi piuttosto oscuro, è emerso che molnupinavir induce una più alta variabilità di SARS- CoV-2 rispetto a paxlovid o a nessun trattamento, anche se in ogni caso non si osserva, in presenza di qualunque trattamento antivirale, l’insorgenza di alcuna mutazione che determina resistenza nei confronti dei farmaci. Si segnala che l’Istituto Superiore di Sanità ha prodotto un corposo documento che affronta l’argomento long COVID, indicando in maniera completa ed esaustiva le buone pratiche cliniche per la gestione e presa in carico delle persone affette da questa patologia. Si tratta di un documento di grande valore che deve essere conosciuto e ben tenuto presente da quanti si fanno carico, dal punto di vista sanitario, di questo tipo di pazienti.

Prof. Roberto Cauda: