Venerdì 3 novembre, il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge di revisione costituzionale il cui obiettivo principale è quello di introdurre il cosiddetto “premierato”, ovvero un rafforzamento delle prerogative del presidente del Consiglio, che verrebbe non più nominato dal presidente della Repubblica prima di ottenere la fiducia del parlamento, ma eletto direttamente dai cittadini e dalle cittadine.
Il disegno di legge verrà ora inviato alle camere, che potranno però iniziare l’esame del provvedimento solo a partire dal 2024, dal momento che è ormai iniziata la sessione di bilancio in cui i lavori parlamentari sono concentrati esclusivamente sull’esame della legge di bilancio (oltre che sui decreti in scadenza). Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, sostiene che fare previsioni sui possibili tempi di approvazione definitiva della riforma è difficile, ma che verosimilmente non ci sarà prima del 2025.
Un percorso lungo, quindi, anche perché è la stessa Costituzione a prevedere procedure complesse in questi casi, e i precedenti degli ultimi decenni testimoniano come per i governi in carica si sia sempre rivelato complicato attuare una riforma costituzionale. Specialmente se, come nel caso di Giorgia Meloni e della sua maggioranza, le proposte di revisione comportano un profondo cambiamento nell’assetto istituzionale dello Stato. Dunque occorre calma e pazienza. Ma soprattutto è necessario avere piena consapevolezza di un particolare, peraltro non secondario, in base al quale maneggiare la Costituzione rappresenta un esercizio ad alto rischio.
L’esperienza di Matteo Renzi ne è la prova più evidente. Ma il leader fiorentino non è stato il solo a cadere sulla Carta. Le ultime quattro volte in cui il governo e la maggioranza parlamentare hanno cercato di introdurre modifiche sostanziali alla Costituzione, è stato richiesto il referendum confermativo: nel 2016 e nel 2006 gli elettori bocciarono la proposta di revisione, nel 2001 e nel 2020 invece la approvarono. Ma i tentativi di riformare la Costituzione in realtà sono stati tanti. Dal momento della sua entrata in vigore il primo gennaio del 1948 si contano in totale 45 interventi normativi.
In 26 casi si è trattato di leggi costituzionali, cioè che hanno lo stesso rango del testo costituzionale ma che non intervengono a modificarlo, bensì a integrarlo. Queste leggi hanno quasi interamente a che vedere con l’attuazione e le modifiche degli statuti regionali, oppure con la necessità di definire meglio il mandato di alcune istituzioni della Repubblica, e sono state quasi sempre approvate con un consenso largo e trasversale in parlamento. L’ultimo di questi esempi, nel settembre del 2023, è consistito nell’introduzione della promozione dello sport come valore educativo e sociale.
L’operazione messa in piedi dalla Meloni è più alta nel fine e complessa nel mezzo. Motivo per il quale lo scenario di un nuovo referendum, per quanto lontano nel tempo, sembra essere comunque scontato, perché è difficile che vi possa essere una maggioranza dei due terzi di Camera e Senato a sostenere la riforma voluta dall’esecutivo in caricai. Tra le opposizioni l’unico partito a dirsi disponibile a un confronto, esprimendo comunque riserve e chiedendo già modifiche al testo, è Italia Viva di Matteo Renzi, che comunque non è sufficiente per ottenere i voti necessari.
Eppure, secondo Alfonso Celotto, professore di Diritto Costituzionale all’Università Roma Tre, il premierato “ci fa paura perché siamo misoneisti, temiamo sempre la novità. Ma non sarebbe un uomo solo al comando come negli Usa, noi avremmo sistema bilanciato con importante potere di interlocuzione con il Quirinale su nomina dei ministri. Questa non è dittatura, è dare investitura popolare al premier”.
“Con il premierato si rafforzerebbe il presidente del Consiglio che sarebbe eletto direttamente dai cittadini”, aggiunge il costituzionalista, “si creerebbe un legame più indirizzato tra la volontà degli elettori e il governo, e si eviterebbe il cosiddetto ribaltone, quindi niente governi tecnici o di opposizione: se cadesse il governo, il nuovo Premier si sceglierebbe tra la stessa coalizione. Non è sistema pericoloso, non dobbiamo avere paura. È un pezzo di soluzione, forse non ottimale ma vedremo se funzionerà”. E di questa opinione non si può non tener conto.