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Così muore il giornalismo

Impazza il dibattito sul diritto alla parola, sulla libertà di stampa, sull’ingerenza della politica nel mondo dell’informazione. Siamo allo scontro totale, con i grillini da un lato a formare liste di proscrizione e i giornalisti dall’altro a difendere la categoria e a preparare trappole per farla pagare a chi attenta all’autonomia professionale. Ecco, credo che il corto circuito stia proprio qui e, pur sapendo di essere impopolare, ritengo che prima di tutto vada fatta una seria autocritica nel mondo del giornalismo. Non si tratta di dare ragione a questo e torto a quello, ma solo di riportare il discorso sui contenuti.

La professione giornalistica per anni è stata sinonimo di garanzia; ma i ritmi di lavoro di quel periodo consentivano di tenere fede a due caratteristiche fondamentali: l’obiettività e la verifica. Si scriveva non per parteggiare per questo o quello, ma per raccontare un fatto. Le ipotesi erano supportate da elementi concreti, non fini a se stesse. E prima di formularle ci si documentava personalmente e approfonditamente. Per dirla in parole semplici, si sapeva bene di cosa si stava parlando.

Oggi i giornali non funzionano più così: redazioni decimate, editori impuri, ritmi di lavoro massacranti, competizione con mezzi estremamente più veloci come il web, citizen journalism e social costringono a correre senza verificare, a ipotizzare senza sapere. Per di più, l’erosione del pubblico, fa sì che ognuno per sopravvivere scelga di mantenere uno “zoccolo duro”, che vuol dire “eccitare” le corde emozionali di una parte. I giornali dunque non sono più alla ricerca della notizia ma dello scoop di parte, dell’ipotesi che sostenga una corrente di pensiero, della suggestione. E perdono credibilità, prima ancora che lettori.

La sortita del pentastellato Di Maio sulla “lista di giornalisti che ha scritto menzogne” ha fatto trasecolare l’intera categoria, che si è asserragliata in una difesa ad oltranza della libertà di stampa. Ma libertà di stampa non vuol dire libertà di scrivere qualsiasi cosa su qualunque persona.

La Stampa ha ben “intercettato” Berdini e ha dato conto delle sue parole; si può discutere sul metodo ma non sulla sostanza: verità dei fatti. In altri casi, però, il giornalismo si è lanciato in ardite ricostruzioni contro i 5 stelle, rispondendo con arroganza alla loro arroganza. E questo non va bene.

Se è vero che la sensazione che danno i “figli di Grillo” è di essere i depositari della verità – e questo si commenta da sé, e forse dovrebbero farci una seria riflessione all’interno di un movimento che altrimenti rischia di implodere – ciò che accade dall’altra parte è l’organizzazione di un cecchinaggio alla ricerca della vittima. Viviamo una sorta di guerra civile che, alla fine, lascerà morti e feriti sul campo della credibilità.

L’allontanamento dei lettori dai giornali è iniziato ben prima dell’arrivo dei grillini, perché la categoria non è stata capace di reinventarsi un modo di comunicare nuovo, ha abdicato al racconto, ha ignorato gli approfondimenti, ha indossato la bandiera della faziosità. E oggi torna ad arroccarsi nella torre d’avorio di una credibilità ormai persa, con un nuovo nemico sul quale sparare, il più delle volte con ipotesi e congetture senza la necessaria verifica delle fonti e dei documenti. Non è sputare nel piatto dove si mangia, è tenerlo pulito.

In caso contrario, questa deriva ucciderà ciò che resta di questo mestiere, che da una parte combatte le fake news che girano sui social cercando di riprendersi quell’autorevolezza che lo ha contraddistinto per decenni, e dall’altra si lascia andare a fake-opinion che sortiscono, alla fine, lo stesso effetto.

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