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Cosa possiamo imparare dalle precedenti ondate di infezioni virali

Fra le pandemie vi sono anomalie e difformità. HIV provoca infezioni insidiose, croniche mentre SARS-CoV-2 acute e esplosive. L’incubazione (cioè il periodo che intercorre prima che si manifesti la malattia) è di anni, in media 10, per l’AIDS e di 1 settimana per la COVID-19. La casistica annovera una platea di 80 milioni di casi e di 37 milioni di morti cumulativi in 40 anni nel caso dell’HIV e di 410 milioni di casi e di 5.8 milioni di morti in 2 anni per il SARS-CoV-2. Ovvero il tasso di letalità per HIV/AIDS è del 46% ma nel lungo periodo (in realtà sarebbe del 100% in assenza di cura) mentre è del 14% nel breve periodo per la COVID-19. Queste caratteristiche, ampia trasmissibilità e debole letalità, espresse con modalità difformi ma entrambe efficaci, ci rendono conto della inidoneità pandemica di altri virus, ad esempio del virus Ebola, che provoca infezioni zoonotiche ma con tale elevato tasso di letalità da esaurire nel breve periodo i possibili trasmettitori affetti.

L’aspetto che più differenzia le caratteristiche epidemiologiche è nella modalità di trasmissione: sessuale ed ematica per l’HIV, respiratoria per il SARS-CoV-2. Per cui mentre per l’infezione da HIV si individuano categorie di popolazione (sex workers, MSM, IDU etc.) in base a comportamenti che le espongono al rischio, per il SARS-CoV-2 tutti siamo a rischio poiché tutti respiriamo. La prevenzione, che è “mirata” sulla riduzione del rischio (condom, siringhe monouso etc.) per HIV, è “universale” per SARS-CoV-2 (distanziamento sociale, mascherine facciali). E questo comporta maggiori difficoltà nell’attuare strategie di prevenzione poiché a queste si deve assoggettare (convintamente) l’intera popolazione generale.

Seconda caratteristica differenziale “costitutiva”, oltre la trasmissibilità, si riferisce alla patogenesi dell’infezione: questa nel caso dell’HIV, che è un retrovirus, consiste nell’integrazione nel genoma delle cellule bersaglio, con conseguente impossibilità di eradicazione. Di qui discende la necessità di sviluppo di terapie antiretrovirali (ART) soppressive, oggi progressivamente perfezionate fino a formulazioni long-acting e con prospettive di “terapie funzionali” e altresì al loro impiego efficace in profilassi post-esposizione (PEP) e anche pre-esposizione (PrEP). Tutte queste strategie terapeutiche, ma con in più gratificate dall’obiettivo eradicante, sono alla portata per il trattamento di COVID-19 in cui disponiamo di antivirali e di anticorpi monoclonali, di impiego già attuale anche in PEP e, per rare indicazioni, in PrEP. Si riproduce in questo campo lo scenario etiopatogenetico e terapeutico delle virusepatiti B e C.

Terza fondamentale caratteristica differenziale “costitutiva” risiede nella risposta immunitaria. Questa in realtà è estremamente variabile fra le diverse infezioni: per alcune (ad esempio morbillo, rosolia, parotite e varicella) è stabile e si estrinseca con una protezione life-long (l’infezione-malattia si contrae una sola volta nella vita), per altre (ad es. malaria) è debole, si esprime come semi-immunità e la protezione è mantenuta da molteplici reinfezioni paucisintomatiche, per altre ancora (ad es. influenza e COVID-19) è decisamente instabile e correlata a fenomeni di immune-escape condizionati dall’emergenza di varianti. Nel caso di HIV/AIDS la situazione è ancora diversa e più sfavorevole: a un profondo deficit di immunità acquisita corrisponde una assenza di risposta immunitaria protettiva. Questo rende ragione della difficoltà di ottenere un vaccino, uno strumento cioè che possa darci un’immunità protettiva che la stessa infezione naturale non conferisce. Nel caso di COVID-19 all’opposto abbiamo ottenuto una serie di preparati vaccinali, la cui persistenza di protezione è temporanea. Tuttavia si lavora per avere vaccini che conferiscano immunità persistente se costruiti su elementi strutturali (es. proteina N) non suscettibili di mutazioni. In conclusione, per l’infezione da HIV/AIDS non abbiamo tuttora vaccini ma abbiamo terapie efficaci che presto avremo compiutamente anche per la COVID-19 dove già abbiamo vaccini efficaci e suscettibili di ulteriori progressi.

Di fronte a questo panorama variegato di analogie e discordanze, data la rilevanza epocale delle due pandemie, una sfida importante da affrontare è il controllo della reazione della società globale. In entrambi i casi, al primo apparire sulla scena, le pandemie sono state accolte con un “sentimento antiscientifico”: la reazione è stata di rimozione di non volere arrendersi all’evidenza scientifica e piuttosto prestare orecchio ad allucinate teorie complottiste o a conclamate teorie negazioniste. Anche nel caso dell’AIDS vi erano premi Nobel testimonial che negavano la malattia e soprattutto le cure opponendo stravaganti cure omeopatiche o a base di integratori ai farmaci antiretrovirali, anzi accusati di essere proposti per arricchire Big Pharma e addirittura di essere loro stessi causa dell’AIDS. Vicende puntualmente riproposte per il COVID-19 anche da capi di stato e premi Nobel che hanno cavalcato l’impiego della clorochina e di anti-elmintici, fondamentalmente perché farmaci già noti e a basso costo. Nel prosieguo il clima movimentista degli anni ’90 ha prodotto per l’HIV/AIDS associazioni di advocacy e sostegno, in alleanza con il mondo scientifico, correttamente indirizzate a combattere lo stigma e ad assicurare le cure idonee a tutti i sieropositivi.

Invece nella situazione attuale, propagandata dai social media, continua per la COVID-19 a dilagare la disinformazione, lo scetticismo anti-scientifico, il negazionismo no-vax. Il dibattito, quando circoscritto a meeting fra pari o a convegni scientifici, si può fondare sulla razionalità: portando dati che confutino erronee affermazioni, il dibattito finisce. Ma con i social media è diverso: gli interventi sono puntiformi e disparati, i dati sono raccolti a caso, si crede non a chi è competente ma a chi è genericamente contro l’establishment. Quando si confuta con un dato un’affermazione, un’altra viene rilanciata fuori contesto e, mal che vada, “si butta palla in tribuna” e si insulta, possibilmente accompagnando gli insulti con le minacce.

In un clima di crescente Infodemia si costruiscono verità di fede e come tali non verificabili. La conclusione è che, mentre per l’HIV/AIDS tutti i sieropositivi in tutto il mondo dispongono di farmaci gratuiti, per il COVID-19 in Africa solo l’8% della popolazione è vaccinata. Intanto oggi il Covid rialza la testa, dunque. La fondazione Gimbe, nella sua ultima rilevazione, certifica la diffusa ripresa della circolazione virale che rimane nettamente sottostimata per il largo utilizzo di tamponi fai da te. Una situazione che inizia a ripercuotersi in particolare sui ricoveri in area medica. A preoccupare sono soprattutto over80, ospiti delle Rsa e soggetti fragili dai 60 anni di età. Al Covid si aggiunge l’influenza stagionale.  Il picco dell’influenza è atteso a fine dicembre. La risposta immunitaria alla vaccinazione impiega circa due settimane per svilupparsi pienamente. Ma finora solo il 31% degli italiani si è sottoposto alla vaccinazione anti-influenzale. Ecco cosa possiamo imparare dalle precedenti ondate di infezioni virali.

Le due ultime decadi del XX secolo sono state teatro di una pandemia da HIV/AIDS, che tuttora è attiva. La seconda decade del XXI secolo è funestata da una nuova pandemia, da COVID-19, che si è sovrapposta alla precedente con effetti ancor più devastanti. Si tratta di due eventi epocali profondamente radicati nell’attualità: dei comportamenti sociali, della mobilità internazionale, della tecnologia sanitaria, in una parola della globalità. E’ certamente interessante esplorare quali riflessioni suscitino questi due fenomeni, in realtà profondamente diversi ma convergenti nella realtà dell’evento pandemico. Quale il reciproco impatto di queste due patologie? I primi studi deponevano per una sostanziale “indifferenza”: la presenza di HIV non appariva fattore aggravante l’esito dell’infezione da SARS-CoV-2 e viceversa questa non sembrava aggravare il decorso dell’infezione da HIV. I successivi studi hanno evidenziato come la realtà sia un poco diversa: la presenza di infezione cronica da HIV può in effetti aggravare l’esito del COVID-19, sia per ragioni intrinseche legate a una persistente disregolazione immunitaria sia per ragioni epidemiologiche legate alla maggiore presenza di fattori prognostici negativi per COVID-19 nei soggetti HIV (ipertensione, diabete, dismetabolismi etc.). Così come l’infezione da SARS-CoV-2 certamente impatta in senso negativo sulla gestione dell’epidemia da HIV comportando riduzione degli screening e della routine assistenziale.

Ma impatta negativamente anche sull’evoluzione dell’infezione da HIV con rischio di scompenso ed emergenza di infezioni opportuniste quando non siano perfettamente controllati parametri viro-immunologici ottimali (CD4 >350 cell/ml, HIV RNA n.d.). Analogie e differenze fra le due pandemie. Le analogie sono fondamentalmente limitate alla comune origine animale: passaggio di specie (spill-over) all’uomo, dallo scimpanzé per l’HIV, dal pipistrello per il COVID-19. Questa origine zoonotica è comune a molte pandemie, esempio classico è l’influenza “spagnola” e dovrebbe ricordarci la nostra contiguità col mondo animale, di cui non siamo dominatori ma parte. Altra analogia “costitutiva”, propria delle pandemie, è la progressiva ineluttabile propagazione che si realizza quando un agente infettivo trasmissibile “nuovo” impatta in un ambiente di tutti individui suscettibili, cioè non immuni. Ma occorre per questo che un tale agente infettivo abbia caratteristiche ottimali di idoneità pandemica. Deve cioè essere sufficientemente patogeno per provocare malattia ma in una percentuale ridotta degli affetti e avere una letalità evidente ma modesta. Non deve cioè bruciare il campo in cui pascola.

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