Cosa ha significato il bombardamento di Hiroshima

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Il 6 agosto del 1945 un aereo B 29 americano sganciò su Hiroshima, città dell’estremo sudovest della più estesa isola del Giappone, Honshu, una bomba atomica che scoppiò a 300 metri di altezza. Provocò ben 130 mila morti e la distruzione dell’80% degli edifici.  Tre giorni dopo, una seconda bomba atomica fu fatta cadere su Nagasaki, città dell’isola di Kyushu, sempre nel Giappone meridionale, con uguali effetti devastanti: 90 mila vittime. A queste occorre aggiungere un numero ancora più elevato di morti per le ferite e la contaminazione radioattiva.

Il 15 agosto Hirohito, annunciò alla radio – i Giapponesi per la prima volta sentirono la voce dell’imperatore semidivino – la resa del proprio paese e la fine della guerra con gli Stati Uniti che era iniziata il 7 dicembre del 1941, con l’attacco, improvviso e senza formale dichiarazione di guerra, alla base aeronavale americana di Pearl Harbour nelle Hawaii.

Con il vezzeggiativo di “Little Boy” fu chiamata dai piloti americani la devastante bomba sganciata su Hiroshima. I Giapponesi che la subirono da allora continuano a chiamare la bomba atomica “Pikadon”, neologismo formato da due parole: pika (lampo) e don (tuono), quanto mai espressivo, non solo per queste prime due, in fondo composte di materiale fissile, uranio e plutonio e esplosivo chimico tradizionale, ma a maggior ragione per le successive bombe H (all’idrogeno) e N (al neutrone), di potenza distruttiva incommensurabilmente superiore.

Gli Stati Uniti motivarono il ricorso alla bomba atomica con la necessità di stroncare le ultime resistenze del Giappone, ponendo così fine alla lunga guerra che in Europa era ormai conclusa, il 9 maggio, dopo la resa della Germania Nazista agli Alleati e ai Sovietici. In realtà il Giappone, ormai ricacciato nei propri confini, sistematicamente bombardato, con ridottissime scorte di armi e di derrate alimentari era allo stremo. Per di più, alla Conferenza di Potsdam, l’ultimo dei vertici, che si era tenuto dal 17 luglio al 2 agosto 1945, tra i “tre Grandi” – Harry Truman per gli Stati Uniti, Clement Attlee per il Regno Unito e Iosif Stalin per l’Unione Sovietica – era pervenuta dal Giappone  la disponibilità ad arrendersi.

Per Truman, dal mese di aprile, dopo la morte di Roosevelt, nuovo presidente, la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, sperimentata in “corpore vili” dei Giapponesi, dopo anni di ricerche, con enormi investimenti di uomini e di risorse finanziarie, doveva costituire un potente messaggio geopolitico universale, rivolto segnatamente all’Unione Sovietica, che pur era ancora formalmente uno Stato alleato: gli Stati Uniti dispongono, in regime di assoluto monopolio, di un’arma nuova terribile e, di conseguenza, intendono svolgere un ruolo di superpotenza.

È in fondo la premessa-anticipazione della cosiddetta “Dottrina Truman” che, prevede se non il “Rollback” (ritorno indietro) almeno il “Containment” (contenimento) dell’Unione Sovietica nei vasti territori acquisiti al proprio dominio nella vittoriosa guerra contro la Germania Nazista. Ne conseguì una contrapposizione aspra e duratura che, almeno in Europa, non sfocerà in un conflitto armato, perché, a partire dal 1949, anche l’Unione Sovietica cominciò a disporre di un arsenale atomico: è l’inizio della “Guerra fredda” e dell’”equilibrio del terrore” che garantisce la “pace armata”.

Oggi sono nove gli Stati (Stati Uniti, Russia, Francia, Cina, Regno Unito, Pakistan, India, Israele e Corea del Nord) che hanno un arsenale atomico. Secondo i dati dell’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (SIPRI), nel mondo sono state prodotte circa 12.512 armi nucleari, di cui 3844 sono dispiegate e operative e circa 2000 di queste sono già pronte all’uso.

Il film capolavoro di Stanley Kubrick, “Il dottor Stranamore”, del 1964, che in chiave farsesca, narra con sottile ironia come si poteva e si può precipitare nell’apocalisse atomica, ha come sottotitolo “come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba”.

Non imparò, però, ad amare la bomba il pilota texano, Claude Eatherly, che sganciò la “Little Boy” su Hiroshima. Prima acclamato come un eroe in patria, poi emarginato e ostracizzato, per tentare di liberarsi dai fantasmi delle migliaia di uomini e donne arsi vivi, s’impegnò nel movimento pacifista e si fece coinvolgere in un liberatorio scambio epistolare con il filosofo tedesco Günther Anders, che è stato uno dei fondatori più autorevoli del movimento antinucleare mondiale.

Anche il padre della bomba atomica, Robert Oppenheimer, nella fase più acuta della Guerra fredda, nel clima avvelenato del Maccartismo, per essersi dichiarato contro l’uso degli ordigni nucleari, fu accusato di avere simpatie per l’Unione Sovietica. Conseguentemente fu messo sotto processo e privato dei suoi incarichi nell’Atomic Energy Commission.

Il bel recente film, “Oppenheimer” diretto da Christopher Nolan, prodotto negli Stati Uniti, ne narra con empatia e commozione le vicende, con un indubbio afflato pacifista. Afflato che si trasmette ai milioni di spettatori che affollano i cinema di tutti i paesi dove il film è distribuito con grande successo.