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Cosa frena la Bce dal vedere al ribasso i tassi di interesse

Che i mercati siano in attesa di una vera e propria sforbiciata sui tassi d’interesse da parte delle principali banche centrali non è un mistero, da diverso tempo le previsioni dei principali analisti indicano che la stretta monetaria, attuata lo scorso anno, per contrastare la fiammata inflazionistica, stia per giungere al termine e che i tassi di riferimento siano destinati a scendere in maniera assai significativa entro fine anno anche se sia la FED sia la BCE ancora stanno “prendendo tempo”.

Il timore, ufficialmente, è che la corsa dei prezzi che si era innescata con la fine della pandemia e il rialzo repentino, seppur temporaneo, dei prezzi energetici e logistici possa non essersi del tutto fermata e che un nuovo corso espansionistico delle basi monetarie possa, in un qualche modo, spingere altri rialzi anche se la cosa andrebbe analizzata in maniera più puntuale.

Innanzitutto c’è stata una differenza molto marcata tra i due fenomeni di innalzamento del livello dei prezzi tra USA e UE: nel primo caso si poteva benissimo parlare di inflazione reale, dovuta a un programma di espansione dell’offerta di moneta da parte del governo – ben oltre la reale domanda valutaria – e di rialzi salariali, cioè di un caso pressocché da manuale, mentre nel secondo l’impennata dei prezzi fu dovuta a dinamiche che potremmo definire di mercato poiché fu conseguente al rialzo repentino del prezzo del gas naturale, ben più di quello del petrolio, che è alla base della generazione di energia in tutto il continente e che aveva toccato un livello superiore alle 7,5 volte il prezzo attuale, cosa che, poi, si è propagata in tutti i settori rendendo impossibile lo scorporo dell’effetto prezzo dell’energia nel computo della cosiddetta inflazione core cioè di quel valore calcolato escludendo dal paniere di riferimento i beni caratterizzati da una forte volatilità (come alimentari e energia).

È evidente che i fenomeni siano ben differenti anche se la risposta fu la stessa su entrambi i lati dell’Atlantico. Ora, però, il livello dei prezzi si è stabilizzato e molte categorie merceologiche sono tornate ad avere un costo smile a quello precedente alla crisi, in maniera piuttosto stabile, e, quindi cosa sta frenando il primo intervento al ribasso da parte della Banca Centrale Europea? La risposta più maliziosa ma, forse, la più realistica è “la FED”.

Di fronte ad un’affermazione del genere una persona potrebbe benissimo chiedersi cosa c’entri l’autorità monetaria americana su questo e, no, non ci si trova di fronte ad un caso di sudditanza come tanti raccontano su social o pubblicazioni di certe aree politiche ma si tratta di una questione puramente di mercato valutario.

Nei mesi passati, su queste pagine (e non solo), non si erano risparmiate critiche all’operato della BCE sia per il non aver compreso esattamente cosa stesse avvenendo nell’Euroarea, cioè la vera natura dello shock sui prezzi, sia per le modalità di intervento che, citando un celebre passo di Star Wars, poteva essere definita goffa e erratica, sempre in reazione ai fatti e priva di un reale piano.

L’uscita, infatti, dal modello espansionistico attuato da Mario Draghi in risposta alla crisi dei primi anni ’10, che era necessaria per normalizzare la politica monetaria dopo anni di tassi negativi, doveva essere più graduale e con un disegno ben preciso, invece fu attuata tardi e, come detto appena sopra, con provvedimenti di reazione che hanno scombussolato le aspettative degli operatori di mercato e creato un vero e proprio vulnus interno all’economia continentale che si stava appena riprendendo dalla recessione causata dal Covid.

La stretta monetaria, poi, ha avuto un’utilità marginale nel contrasto al rialzo dei prezzi che, in verità, si sono sgonfiati, tornando quasi ai livelli precedenti in molti casi, con la caduta dei prezzi energetici, in maniera ben più repentina di quanto possa essere credibile a seguito di una forte politica restrittiva a livello valutario, cosa che ha letteralmente spiazzato Francoforte che ha visto solo la propagazione degli effetti negativi della sua azione con un pesante rallentamento della crescita continentale, la crisi di alcuni comparti industriali e la riduzione, anche piuttosto pesante, del potere d’acquisto delle famiglie che ha intaccato i consumi.

Perché attendere ancora nell’inversione di tendenza, quindi? Come si è anticipato la risposta va cercata oltreoceano ed è relativa alla quotazione dell’euro.

Seppur vero che l’indebolimento della valuta continentale aiuterebbe, momentaneamente, le esportazioni, rendendo più competitivi i prodotti europei, specularmente si avrebbe un problema dal lato delle importazioni, soprattutto di materie prime e foni energetiche, che avrebbero una nuova impennata relativa ai prezzi in euro, essendo quotate in dollari.

Il gioco valutario è sempre una questione di bilancini, se da un lato non è possibile irrigidire troppo l’offerta di moneta, per evitare un credit crunch che bloccherebbe consumi e investimenti, dall’altro è necessario allinearsi alle politiche monetarie delle banche centrali principali per non avere ripercussioni sui cambi e sugli scambi internazionali e l’attendismo della BCE su una normalizzazione della politica monetaria è, credibilmente, dovuta all’azione della FED per evitare che un taglio troppo repentino dei tassi possa svalutare significativamente l’euro nei confronti del dollaro.

Va notato, inoltre, che la credibilità delle istituzioni sia alla base delle decisioni operative sui mercati, infatti la passata politica estremamente espansiva di Francoforte sotto Draghi non aveva avuto seri contraccolpi dal lato dei cambi, ma la BCE a guida Lagarde non è che goda di questo gran credito dopo la confusa azione in risposta allo shock sui prezzi tra la metà del 2022 e la metà del 2023 e, per questo, oggi non può compiere passi falsi e da qui la decisione di lasciare fermi i tassi negli ultimi mesi nonostante le previsioni degli analisti.

Ora, però, lo scenario sembra mutare completamente sia per sostenere l’economia zoppicante del continente sia per le previsioni di riduzione dei tassi da parte della FED, tanto che Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo, si è sbilanciato nel prevedere il primo ribasso del tasso di riferimento europeo entro giugno, con altri 5 tagli seguenti per raggiungere, probabilmente, a quel 2/2,5% ipotizzato già tempo fa dagli analisti di Goldman Sachs.

La cosa sembra, poi, confermata dalle ultime offerte di mutui a tasso fisso da parte delle banche, nettamente più basso del tasso BCE e addirittura dell’IRS, l’Interest Rate Swap, che rappresenta il parametro di riferimento per l’apposizione del tasso in caso di offerta a tasso fisso.

L’IRS, infatti, è un ottimo indicatore sulle aspettative future relative al livello dei tassi: si tratta di un contratto derivato che va a fissare un tasso d’interesse sul mercato tra due parti, in questo caso le banche che lo usano per sterilizzare il rischio sugli impieghi a tasso fisso e un altro operatore, qualora il tasso ufficiale sia superiore a quanto pattuito sarà il secondo a pagare alla banca la differenza mentre nel caso contrario sarà la banca a pagare l’altro per il differenziale. Ovviamente entrambi gli operatori sono, per definizione, avversi al rischio puro ma aperti a un moderato rischio calcolato (senza il quale ogni investimento non verrebbe mai effettuato, in realtà) e, quindi, è palese che, stante la composizione del tasso per i mutui a tasso fisso IRS+spread, che rappresenta il guadagno dell’istituto di credito, è palese che le aspettative del mercato siano indirizzate verso un livello dei tassi inferiore almeno al 2,5% se non, addirittura, al 2% in tempi relativamente brevi.

Sia chiaro, in ogni caso, che l’epoca dei tassi nulli o persino negativi dovrebbe essere finita per sempre in quanto la misura che, a suo tempo, doveva essere straordinaria si era già protratta molto a lungo a sostegno della rigidità del mercato europeo ma, ora, è giunto il tempo di una normalizzazione a tassi positivi seppur nettamente inferiori a quelli attuali anche se questo potrebbe portare a una correzione, salutare comunque, dei mercati finanziari e lo sgonfiamento di quei settori che l’abbondanza di liquidità ha spinto in bolla per la ricerca di rendimenti in mancanza di alternative di liquidità o di titoli di debito di buon livello.

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