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Cosa cambierà senza Quantitative easing

Leggendo i quotidiani e facendo attenzione agli altri media risuona da più parti il monito sulla possibile crisi del debito italiano al termine del programma di Quantitative Easing da parte della banca Centrale Europea.

Sicuramente l’argomento fa molta presa sul pubblico, anche per via della retorica che da qualche anno si è incentrata sulla questione “spread” che ha reso i discorsi da bar sempre più simili a un talk show finanziario, anche per i toni.

A logica, però, questo allarme parrebbe un filo esagerato sia per le caratteristiche dell’operazione messa in campo dalla Bce sia per le dinamiche relative ai titoli di debito del Paese; andiamo con ordine, però, prima di illustrare la tesi sarebbe meglio analizzare cosa siano veramente il Quantitative Easing e lo spread, spesso citato ma quasi mai spiegato.

Il Qe o, in italiano, “alleggerimento quantitativo” è un’operazione non convenzionale di politica monetaria e rientra nelle possibilità di azione da parte delle banche centrali per intervenire direttamente sul livello di liquidità.

In pratica la banca emette nuova liquidità (ampliando la base monetaria) acquistando, con operazioni di mercato, titoli di stato, bond obbligazionari o strumenti strutturati di debito (alcuni li chiamano “titoli tossici” ma potrebbero essere semplicemente degli Abs risultanti da cartolarizzazioni di poste passive di istituti finanziari, come nel caso dei mutui). Questo non ha alcun effetto sui tassi nominali riconosciuti sul titolo ma può avercelo dal lato dello spread o dal lato dell’inflazione, anche perché il Qe è una mossa inflazionistica volta a “riscaldarla”.

Si è nominato lo “spread”, ovviamente, ed è bene capire che questo non sia un valore fisso ma un differenziale fra il rendimento netto di un titolo con il suo equivalente posto a numerario. Nel caso dei titoli di Stato questo viene identificato con il Bund a 10 anni tedesco.

Cosa vuol dire questo? Che l’Italia pagherebbe più caro il suo debito in caso di crescita di questo indicatore?Non è affatto detto. Lo “spread” viene calcolato sulla differenza di rendimento reale tra due titoli scambiati sul mercato, a parità di scadenza, e non in fase di asta. Quindi se oggi il Btp a 10 anni, emesso con un tasso dell’1,85%, vedesse un innalzamento di 50 bps dello spread, ad esempio, allo stato continuerebbe a costare l’1,85% lordo (in realtà l’1,63% al netto di imposte) all’anno fino a scadenza mentre potrebbero essere problematiche le future aste se il rendimento in fase di collocamento fosse più elevato per via del maggior rischio percepito da parte degli investitori.

Chiaro? Forse no… pensiamo a un bond decennale emesso a 100 con rendimento al 2%, questo costerà 2 all’anno per dieci anni, quindi 20 a fine periodo ma se lo spread s’innalzasse questo, magari, verrebbe ceduto sul mercato a 99, quindi a termine periodo, pur costando 20 all’emettitore. Chi lo avesse in portafoglio avrebbe un guadagno supplementare visto che l’investitore lo avrebbe acquistato a 99 e il rimborso finale sarebbe pari a 100. Chi “perde” quell’1 mancante? Chi ha venduto il titolo che lo ha ceduto al di sotto del prezzo di acquisto… Il problema verrebbe se il soggetto in questione fosse lo stato in sede di asta di emissione ma negli altri casi per questo non si verificherebbe alcun problema.

Detto questo si comprende perché la fine del Qe, paventata per il 2019, non rappresenti veramente una minaccia, quanto più un allarme che dovrebbe spingere lo Stato, in questo caso l’Italia, a recuperare credibilità sui mercati per evitare che le future emissioni di titoli possano avvenire a tassi eleva. In più aggiungiamo che la fine degli stimoli monetari potrebbe avere un contraccolpo sull’inflazione raffreddandola e abbassandone ancore il tasso.

La cosa da tener conto è che la mission della Bce è indirizzata alla stabilità dei prezzi e al mantenimento del tasso d’inflazione nell’Euro area intorno al 2%, motivo per cui Draghi lanciò il suo programma di stimoli non convenzionali, in palese antitesi con l’operato dei suoi predecessori Duisenberg o Trichet, quando tutta Europa rischiò di finire in una spirale deflazionistica.

L’opera della Bce, ovviamente, non raggiunse appieno il suo scopo ma riuscì a spingere la crescita del sistema ovunque, anche in Italia dove da anni si registra una stagnazione in termini reali che, dopo la crisi del 2009 è divenuta la più lunga recessione che la storia ricordi da cui si è, lentamente, usciti solo dal 2016 in avanti senza, però, raggiungere, nemmeno lontanamente, i livelli produttivi e di reddito pre-crisi.

Cosa comporterà, quindi, la fine del Qe, i cui livelli di acquisto titoli, però, si sono già ampiamente ridotti?Probabilmente a un riscaldamento dei mercati con una credibile correzione delle borse poiché la ricerca di guadagno non sarà più indirizzata solo sull’azionario ma potrebbe tornare interessante anche il c.d. fixed income qualora anche i tassi tornassero a crescere e perché i livelli di liquidità non cresceranno più come prima.

Quest’ultima precisazione, però, è importante visto che non ci sarà alcun sell off (cioè vendita improvvisa) di titoli da parte della Bce che continuerà a mantenere in portafoglio quello che ha acquistato fino a scadenza; non aspettiamoci, quindi, crisi di liquidità perché la riduzione dello stock sarà progressiva e legata alle scadenze dei titoli già acquistati né un rialzo improvviso e continuo dei tassi perché la ripresa europea è ancora flebile e un aumento del costo del denaro potrebbe essere devastante, soprattutto considerando le criticità del settore bancario sulla qualità di attivi, tra Npe da dismettere e titoli Level 3 in bilancio.

L’unica cosa, questo sì, che cambierà o che dovrebbe cambiare sarà l’approccio al debito, sia per Stati sia per aziende che dovrà essere più prudente, non potendo contare su un “grande compratore” che riduca le pressioni di mercato. In ogni caso non si potrà parlare di una fase nuova ma di un progressivo ritorno alla normalità.

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