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Cosa ci dobbiamo aspettare dalla COP di Glasgow?

Foto di Ria Sopala da Pixabay

Ci è sempre più familiare il termine “cop”. Che sia per la lettura di un quotidiano o per un ascolto anche distratto di un programma televisivo di attualità la “cop” è entrata nel novero di quelle che si epitetano con “la famosa”. Come lo è ormai per la “piccola Greta”. Ed è proprio calzante quel detto: la sua fama la precede. L’intensità con cui si parla di questa benedetta “cop” cresce in modo più che direttamente proporzionale all’avvicinarsi dell’evento, per poi sparire quasi del tutto, come entrasse in una sorta di letargo prima di tornare a svegliarsi di lì a poco meno di un anno.

Ma cosa sia la “cop” (no.. non sei tu), di cui in questi giorni si sente parlare sempre più insistentemente associata all’appuntamento sul clima che riunirà a Glasgow (Inghilterra) probabilmente pochi lo sanno con esattezza. Eppure, ci saranno “esperti provenienti da tutto il mondo … insieme a Capi di Stato, esperti di clima, attivisti e imprenditori”. COP è acronimo di Conference of Parties. La conferenza delle parti aderenti alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Cambiamenti Climatici la cui firma si tenne a Rio de Janeiro nel 1992.

Poiché era palese l’alto livello di complessità derivante dagli obiettivi politici e tecnici individuati e dalla novità già sul piano giuridico della Convenzione, gli aderenti (allora 154 nazioni) ravvisarono da subito la necessità di incontrarsi periodicamente per analizzare i progressi e le criticità applicative degli sforzi concordati per preservare il sistema climatico terrestre e al contempo per raccogliere dati e valutazioni sui fenomeni di inquinamento atmosferico antropogenico. Perché cuore pulsante degli accordi di Rio (quando in principio riguardavano solo 50 paesi che oltre alla firma avevano ratificato nel proprio sistema statuario la scelta di vincolarsi ad azioni sostanziali) è contenere l’aumento della temperatura atmosferica terrestre, garantendo al contempo una equa distribuzione dei costi da sostenere per arginare il fenomeno e la possibilità per i paesi dalle economie deboli di trovare una strada di emancipazione e modernizzazione.

Scorrendo la cronaca delle 20 e più COP che si sono tenute dagli anni ’90 ad oggi si ha l’impressione di leggere un bollettino di guerra. Sono solo occasionali, infatti, quegli incontri nei quali i punti di convergenza hanno superato quelli di divergenza.

Ciò può essere imputato sostanzialmente a tre aspetti. Il primo attiene ad una sottovalutazione dei potenziali di sviluppo di quelle che erano all’ora delle cosiddette “economie emergenti”: Cina, India, Brasile ad esempio sono cresciute ad un ritmo non previsto e sono rimaste nel novero dei paesi in via di sviluppo ben più di quanto il reale contributo ai mutamenti climatici e ambientali non avrebbe potuto garantirgli. Fondamentale è poi l’aspetto che riguarda le conoscenze scientifiche ed i metodi di studio e non meno importante la difficoltà nel costruire una solidità reputazionale degli istituti di ricerca. Si pensi a quello che è stato definito Climagate quando nel 2009 uno scambio di mail interno all’istituto inglese Climate Research Unit mise in imbarazzo il panel internazionale sugli studi climatici per presunte alterazioni dei dati finalizzate a mantenere alti i finanziamenti pubblici. Il terzo, che è discendente dal precedente, riguarda la severità dei mutamenti ambientali indotti dell’industria inquinante, anche questa sottovalutata, tanto da mettere i paesi di Rio nelle condizioni di dover costantemente porre nuovi e più stringenti obiettivi da raggiungere.

Si è dovuto spesso tornare al punto di partenza (o quasi). E nella maggior parte dei casi più impegni e dichiarazioni di principio (di altissima caratura, ci mancherebbe) che proposte di soluzioni applicabili e vincolanti. Ma non sono mancati, ovviamente, punti e passaggi positivi. Anzitutto la discussione sui temi ambientali affrontata nell’ambito dell’accordo di Rio e quindi delle COP che si sono succedute sino ad oggi, ha indubbiamente contribuito ad accendere campanelli di allarme su elementi nocivi per il benessere umano e del pianeta terra permettendo di intervenire in modo sistematico (gas serra e assottigliamento dello stato di ozono). Ed ha avuto al contempo un effetto moltiplicatore sulla sensibilità al tema dei popoli delle grandi nazioni. Poi il sistema di negoziazione internazionale sui temi climatici rimane uno di quelli con maggiore partecipazione a livello planetario.

Ciò rafforza l’idea che il diritto internazionale possa essere uno strumento per avvicinare paesi del mondo anche molto diversi tra loro e che aiuti, sebbene il carattere primitivo, a superare contrasti e disaccordi in modo pacifico. Quanto questo strumento sia efficace è evidentemente in discussione. Tanto che agli accordi di Rio si sono aggiunti e in parte sostituiti gli accordi più recenti di Parigi. Quando nel 2015 è stato chiaro che l’obiettivo di limitazione dell’aumento della temperatura globale a massimo +2.0 °C (rispetto ai livelli preindustriali) non solo sarebbero stato raggiunto in tempi “utili” ma non sarebbe stato neanche sufficiente a garantire una prosecuzione “felice” della nostra presenza sul pianeta.

E così ad oggi le COP non sono momento di discussione solo in tema di “Accordi di Rio” ma anche di “Accordi di Parigi”. È lampante però che il sistema in questa configurazione non possa che risultare ancora più complesso. Tanto che gli scenari futuri climatici disegnati dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) non lasciano ben sperare. Anche massimizzando l’abbattimento di emissioni climalteranti ed in particolare se si riuscisse a mantenere emissioni globali nette negative di CO2 ci vorrebbero secoli per invertire la tendenza di fenomeni atmosferici estremi come l’innalzamento del livello del mare. E il contenimento a massimo +1.5 °C è quasi irraggiungibile anche a fronte di emissioni di gas serra molto basse.

Cosa ci dobbiamo quindi aspettare dalla COP di Glasgow? La solita passerella di influencer globali che ammoniranno i potenti sulla necessità di invertire la rotta? L’ennesimo accordo di intenti con la promessa di fare i compiti a casa e verificare gli esiti tra qualche anno? Non si può escludere che ciò avvenga. Se la storia insegna. Ciò non toglie, tuttavia, importanza alla questione. La Cura della Casa Comune è uno sforzo che richiede un approccio integrale. Per questo, anche se a livello internazionale i fallimenti sembrano più dei successi e se il fil rouge sembra tutt’altro che indirizzato all’attenzione verso l’ambiente e le popolazioni maggiormente colpite dai danni causati alla nostra terra, si deve mantenere viva la fiamma della speranza che anima ciascun individuo di buona volontà. “Sappiamo che le cose possono cambiare” è uno dei messaggi dell’Enciclica Laudato Sì, grande messaggio di speranza antropologica ancor prima che ecologica. E non uniformarsi “alla mentalità di questo mondo” può essere un buon punto di partenza per innescare il cambiamento.

Giovanni Savarese: