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Le conseguenze economiche della guerra

Sono passati più di 100 anni da quando John Maynard Keynes scrisse Le Conseguenze Economiche della Pace, alla fine del primo conflitto mondiale, ma, al momento con il perdurare della crisi ucraina e l’apertura del fronte tra Hamas e Israele, oggi la domanda più ricorrente riguarda le conseguenze che potrebbe avere la guerra. Durante i lavori del 128esimo Consiglio Nazionale della FABI ci si è interrogati sulla questione in una tavola rotonda con protagonisti il segretario nazionale Lando Maria Sileoni, Michele Brambilla, giornalista dal CV assai corposo e autore mai scontato di diversi saggi, Dario Fabbri, direttore della rivista di geopolitica Domino e Manuela Donghi, vicedirettore del Giornale Radi. Gli spunti usciti dalla discussione sono stati assai importanti perché sono andati ad analizzare alcuni punti poco approfonditi nelle scuole e nella trattazione più diffusa sia su come si vincano le guerre, su cosa comporti la sconfitta e, soprattutto, sulla situazione attuale.

Partendo dalla base da cui partì Keynes è interessante osservare che la Prima Guerra Mondiale finì con la sconfitta dei grandi imperi centrali, prussiano, austro-ungarico e turco, sena che questi abbiano mai visto aprirsi un fronte interno ai loro territori: la fine della guerra venne dal collasso economico di questi grandi stati che non riuscirono più a finanziare e sostenere i fronti aperti, in Francia, in Italia e in Medio Oriente. Da qui, evidentemente, deriva la suggestione che, fin dall’epoca della Società delle Nazioni, i conflitti si possano, prima, circoscrivere e, poi, chiudere, tramite sanzioni e embarghi che possano mettere in ginocchio gli aggressori. Il parallelo con la Russia, oggi, pare evidente ma qualcosa non torna.

L’applicazione delle sanzioni economiche, ormai da quasi due anni sembrano non riuscire a piegare Mosca che, nonostante una reale crisi interna soprattutto di approvvigionamenti tecnologici, non sembra mostrare arretramenti nella sua azione verso Kiev ma perché?

La vera motivazione è che non è affatto scontato che una persona e un popolo si muova secondo logiche economiche, esistono altre motivazioni profonde, derivanti dalla cultura e dalla percezione generale, che possono spingere lo sforzo bellico e sopportare ogni tipo di privazione fino alla vittoria (o alla sconfitta.

Nel caso in questione va sottolineato che la maggior parte dei russi non è la frizzante popolazione di Mosca o San Pietroburgo ma è rappresentata dai borghi, dalle cittadine, da coloro che, vivendo nelle grandi pianure, sono abituati ad essere circondati da un orizzonte infinito dal quale nel passato, sono sorti nemici e invasori, dai mongoli dell’Orda d’Oro, agli invasori europei di Napoleone, prima, e dell’Asse, poi, e il sentimento generale è rivolto alla difesa del proprio territorio, della nazione. Ecco questo è un punto fondante, avulso dalla percezione italiana in cui il nazionalismo è visto, un po’, come una cosa da ignoranti e di scarsa intelligenza, che può spingere ad andare oltre anche alle simpatie/antipatie politiche interne.

Una cosa similare la si può vedere anche nel caso del conflitto arabo-israliano dove i sostenitori di Hamas, nonostante siano mantenuti nella miseria mentre i capi dell’organizzazione terrorista vivono nella ricchezza delle loro ville in Qatar (tra l’altro principale finanziatore di Hamas stesso) ma che non hanno, generalmente, mai avuto un dubbio nell’azione contro Israele, pur sapendo che una grande percentuale di cittadini siano anch’essi arabi, musulmani e cristiani.

Per queste ragioni le mere sanzioni economiche non hanno portato al risultato sperato, salvo quello, anch’esso importante, di compattare il fronte opposto, quello che si è riunito intorno al simbolo dell’ONU e che contrasta l’azione russa. Diversa è la situazione finanziaria.

Bisogna, infatti, fare una secca distinzione tra gli ambiti economico tout court e finanziario poiché il primo, da definizione classica, riguarda la produzione e l’allocazione delle risorse, mentre il secondo è meramente un riallocatore di risorse monetarie e, infatti, è legato direttamente all’azione delle Banche Centrali.

Molti, magari non hanno fatto caso alla questione, ma il trend secolare di crescita dei mercati finanziari segue perfettamente la politica di espansione delle masse monetarie, sia per l’azione diretta di FED, BCE e delle altre autorità monetarie sia per incremento della propensione al credito delle banche commerciali, sa un lato per la mera ricerca di rendimenti e dall’altro per la ricerca di nuovi segmenti di sviluppo adatti a nuovi e remunerativi investimenti. L’andamento degli indici e dell’inflazione, almeno come considerata dai più, degli ultimi mesi a riprova.

Con l’invasione dell’Ucraina si è verificato uno shock ribassista sui titoli quotati e uno rialzista sulle materie prime, spinti dal timore del blocco degli approvvigionamenti a seguito delle azioni belliche. Mentre il primo è rientrato piuttosto velocemente, una volta “prezzato” il rischio, il secondo ha avuto una durata maggiore che ha generato delle forti ripercussioni dal lato dei prezzi, cosa che ha fatto alzare le rilevazioni dell’inflazione che ha provocato la reazione scomposta di Francoforte con una stretta monetaria senza precedenti nella storia, forse per paura di un “effetto Weimar”, seppur in piccolo.

Ora, l’azione della BCE ha avuto un effetto piuttosto blando dal lato dei prezzi, che hanno ripreso a decrescere solo per via della normalizzazione dei prezzi dell’energia e delle materie prime, ma ha generato un primo credit crunch rendendo estremamente costoso il ricorso al credito bloccando consumi e investimenti e spingendo l’Euroarea in stagnazione e, in taluni casi, già in recessione.

Ciononostante la capitalizzazione delle borse ha reimboccato da tempo il trend secolare e continua a crescere, contando su un taglio corposo dei tassi di interesse e di un dietrofront della politica monetaria restrittiva nel corso di questo 2024, quindi con l’aumento delle risorse per nuovi investimenti… questo nonostante non si veda ancora la fine delle guerre oggi in atto.

Mentre a livello economico una guerra avrà delle conseguenze reali, con un aumento della scarsità di taluni beni, la crisi di certi settori industriali e il boom di altri (come quello degli armamenti e di tutto l’indotto), a livello finanziario il vero nemico non sono le bombe ma l’incertezza. Quando questa cresce, i timori per il futuro, spingono quella che è chiamata “preferenza per la liquidità” e, di conseguenza, vengono disinvestiti i capitali e riportati in depositi liquidi ma quando la situazione si schiarisce e le aspettative per il domani acquisiscono un buon livello di verosimiglianza ecco che gli investimenti riprendono, soprattutto se supportati da una politica monetaria espansiva.

Ecco, forse questo non è quello che si vorrebbe sentire sulle conseguenze di una guerra, si preferirebbe un insegnamento morale e una spinta alla pace, che comunque è e resta la situazione ottimale per tutti, quando la realtà è molto più cinica e segue la ricerca di un vantaggio prima individuale e, poi, collettivo, ma solo perché questo comporta la massimizzazione del primo.

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