L’otto settembre del 1943, a seguito dell’armistizio tra il governo Badoglio e gli Angloamericani, nonostante il coraggioso tentativo di gruppi civili mal armati e di militari di ostacolare l’ingresso in città dei reparti tedeschi – è considerato giustamente l’inizio della Resistenza – incominciano i dieci terribili mesi dell’occupazione nazista della capitale che ebbe termine, infatti, il quattro giugno del 1944.
Roma, come tutto il Centro Nord, è sotto il governo collaborazionista della Repubblica sociale italiana, chiamata dispregiativamente Repubblica di Salò, perché nella cittadina sul lago di Garda avevano sede gli importanti ministeri degli Esteri e della Cultura popolare (Minculpop) e dell’Agenzia stampa del regime.
La Capitale, sottoposta a un controllo rigidissimo da parte degli occupanti tedeschi e dei loro subalterni collaboratori fascisti, soprattutto negli insolitamente rigidi mesi invernali, sconta crescenti riduzioni e interruzioni dei servizi essenziali, dagli approvvigionamenti alimentari, alla distribuzione dell’acqua e del gas e degli stessi trasporti urbani.
La città impaurita e affamata assiste quotidianamente all’arruolamento forzato dei giovani e al loro invio in Germania per il cosiddetto “lavoro volontario” e alla deportazione di migliaia di uomini e donne della comunità ebraica, a partire dalla razzia del ghetto del 16 ottobre 1943. Continuano anche i bombardamenti, dopo quelli spaventosi del mese di luglio, che avevano devastato il popolare quartiere di San Lorenzo. Nonostante gli appelli e le forti pressioni della diplomazia della Santa Sede – Pio XII si propone come “defensor civitatis” – né i Tedeschi, né gli Angloamericani rispettano lo status di “Roma città aperta”, come dal titolo del bellissimo film del 1945 di Roberto Rossellini, quasi coevo ai fatti narrati.
In questa situazione, mentre è diffusa la resilienza e la resistenza passiva, soprattutto delle donne, la lotta armata, attiva soprattutto nei quartieri periferici della città, non è particolarmente incisiva. Il CLN cittadino per inviare anche un messaggio agli Alleati che avanzano lentamente verso la Capitale, dopo lo sbarco di Salerno e quello più vicino di Anzio, incaricano i Gruppi di azione patriottica, più noti con il loro acronimo di GAP, di tentare un’azione militare eclatante nel cuore della città.
Dell’esecuzione è incaricato un gruppo di giovani del GAP, che, nel dopoguerra, diventeranno importanti personalità della politica e della cultura. Nel pomeriggio del 23 marzo del 1944, un giovane studente di medicina, Rosario Bentivegna, trasporta nascosta in un carretto per la raccolta dei rifiuti, una bomba rudimentale, assemblata da un altro giovane, il fisico Giulio Contini e da sua moglie Giulia. Il luogo scelto per l’attentato è via Rasella, una strada stretta e in salita, nel cuore del centro storico della capitale, alle spalle di via del Tritone. Qui, ogni giorno alle 14.00, passano i soldati tedeschi di ritorno dal poligono di tiro di Tor di Quinto. A fare il palo, la fidanzata di Bentivegna, Carla Capponi e Franco Calamandrei, incaricato di fare un gesto convenuto all’arrivo dei soldati.
La bomba scoppia alle 15.42 e la deflagrazione uccide 26 soldati della Polizeiregiment Bozen, composto prevalentemente da giovani della provincia di Bolzano, che era stata annessa al Reich. Ne segue un conflitto a fuoco in cui i “gappisti” lanciano altre bombe e fuggono. I soldati tedeschi uccisi sono alla fine 33. Residenti e passanti sono immediatamente rastrellati e le case dei dintorni perquisite. Il generale Herbert Kappler, comandante della Gestapo a Roma, comunica direttamente a Hitler la notizia sconvolgente dell’attentato,
Nel giro di alcune ore scatta una sanguinosa rappresaglia tedesca. L’Agenzia Stefani in un esile comunicato, “l’ordine è stato già eseguito”, ripreso la mattina dopo dal quotidiano Il Messaggero, annuncia che per ogni soldato tedesco ucciso in Via Rasella erano stati già giustiziati 10 “comunisti badogliani”. A essere immediatamente trucidati all’imbocco di una cava dismessa di pozzolana, nell’allora periferia di Roma, lungo la via Ardeatina, a ridosso delle catacombe di San Callisto, sono in realtà 335: civili e militari e anche un sacerdote, comunisti, azionisti e liberali, e ben 75 ebrei. Il questore Pietro Caruso, che sarà nel settembre del 1944, processato e condannato a morte, diede un contributo decisivo per la compilazione della lista.
Tenendo conto delle poche ore intercorse tra l’attentato e l’orrendo eccidio, di là dal titolo del comunicato ufficiale dell’autorità occupante, si deduce che non fu neppure presa in considerazione l’ipotesi di annullare l’esecuzione in cambio della consegna degli esecutori dell’azione militare del giorno precedente. E ancor meno vi fu una richiesta in tal senso. Il massacro fu eseguito a 23 ore dall’attentato e fu reso noto a esecuzione avvenuta. Alcuni giorni dopo furono fatte saltare con la dinamite le volte della galleria per ostruire l’accesso alla cava, con due mila metri cubi di materiale.
Dopo la liberazione della città, da luglio a novembre del 1944, rimosso questo materiale d’ingombro, le salme, ammucchiate in due ammassi, furono esumate e identificate, non senza difficoltà per l’avvenuta decomposizione, alla presenza anche di un sacerdote cattolico e di un rabbino israelitico. Anche in rete sono, nel sito dell’Associazione nazionale famiglie italiane martiri (ANFIM), sono disponibili le immagini sconvolgenti dei corpi martoriati e del dolore disperato dei familiari, chiamati a riconoscere i propri cari. Se si ha presente la vicinanza delle catacombe, non era e non è ancora oggi difficile riconoscere in essi dei nuovi martiri.
Per comprendere nelle complesse dinamiche storico-politiche l’eccidio delle Fosse Ardeatine e dell’attentato di Via Rasella si rinvia al film documentario “Roma Occupata”, prodotto dall’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico (AAMOD), realizzato da uno dei più innovativi registi documentaristi italiani, Ansano Giannarelli.
Alessandro Portelli nel libro, “L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria” (Donzelli, 1999) ha ricostruito con forte passione civile, raffinata scrittura e con una mole di documenti d’archivio e di fonti orali (oltre 200 interviste a familiari di più generazioni), la vicenda dell’attentato partigiano di via Rasella e della strage nazista delle Fosse Ardeatine e, attraverso le testimonianze di ben 200 intervistati di più generazioni, compresi fascisti ed ex-fascisti, la memoria che essa ha lasciato nella città.
Una memoria non pienamente condivisa, tanto che negli anni della Guerra fredda, dal 1949 al 1957, per ben tre gradi di giudizio, cinque familiari di vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, intentarono un procedimento in sede civile per risarcimento danni alla Giunta militare del CLN di Roma, nelle persone di Giorgio Amendola, Riccardo Bauer e Sandro Pertini, quali mandanti dell’attentato di via Rasella e degli esecutori, prima menzionati. La Corte di Cassazione nel maggio del 1957, confermando le sentenze dei due precedenti processi, inquadrando l’attentato di via Rasella nella Resistenza e nell’azione partigiana, ha sconfessato ogni ipotesi di illecito a carico dei partigiani e giudicato destituita di ogni fondamento giuridico la pretesa legittimità della rappresaglia tedesca.
Il Mausoleo delle Fosse Ardeatine, costruito nel dopoguerra nel luogo dell’eccidio, con il suo ricco Museo dei cimeli, che contiene anche opere d’arte sul tema di grande valore, come i quadri di Renato Guttuso (“Fosse ardeatine”) e di Carlo Levi (“La Liberaziome”), nonché una ricca documentazione a stampa, è divenuto nel tempo un sito di primaria importanza per visite di studio di studenti e uno spazio ideale per approfondire la cultura del dialogo e della pace.
È indicativa al riguardo la dichiarazione di Sergio Mattarella fatta il 31 gennaio del 2015, quando scelse di compiere la sua prima uscita pubblica da presidente, nel suo primo mandato, proprio al Mausoleo delle Fosse Ardeatine: “L’alleanza tra nazioni e popolo seppe battere l’odio nazista, razzista, antisemita e totalitario di cui questo luogo è simbolo doloroso”.