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Come rilanciare i redditi e far crescere la produttività nazionale

Spesso si parla di salari e di redditi perché è indubbio che in Italia ci sia una questione salariale irrisolta da decenni, ormai. Anche su queste pagine si è ricordato, più volte, che nel trentennio 1990-2020 i salari medi sono diminuiti, in termini reali, di circa un 3%, caso unico in tutti i paesi occidentali e questo è andato a incidere sia sulla propensione al risparmio sia sugli investimenti privati.

La causa principale è stata la diminuzione media della produttività del sistema economico che non permette di sostenere remunerazioni al personale dipendente, diciamo, di livello europeo senza rischiare di mandare in crisi tutta la struttura. La situazione, ovviamente, non è rosea, soprattutto per l’impennata dei prezzi riscontrabile principalmente nei grandi centri dove una persona, anche con uno stipendio superiore alla media, farebbe fatica anche solo a pagare un affitto di un bilocale e tutto questo va a incidere sulle aspettative e sulla fiducia dei consumatori che, ovviamente, ridurranno di seguito spese e investimenti per cercare di accantonare risorse liquide per eventuali necessità improvvise: il risultato è una caduta della domanda e del tasso di investimento aggregato con conseguente contrazione del PIL.

Ora, forse, quest’ultimo non è il miglior indicatore della validità di un sistema economico ma è un indice, globalmente accettato, che permette di confrontare le realtà esistenti e, visto che dipende direttamente dai redditi in tre addendi su quattro nell’identità keynesiana che ne mostra la composizione, da qui alla necessità di rilanciare i salari e, con questo, i redditi degli individui la connessione diventa palese se l’obiettivo sia quello di far crescere produttività e ricchezza nazionale. Come fare, però?

Qualche giorno fa, illustrando i dati WTO sull’export italiano, avevo mostrato che la narrazione sul declino italiano non sia esattamente così fondata come molti, sui social o su alcuni media, vanno raccontando da tempo: la grande industria, infatti, è perfettamente nei parametri di produttività e di redditività dei principali concorrenti esteri mentre la media, quella che conta tra i 50 e i 2’000 dipendenti, è un’eccellenza mondiale, con livelli di efficienza superiori alle medie estere; quello che zavorra il sistema, invece, e che spinge verso il basso anche la contrattazione nazionale collettiva è la piccola e micro-impresa che, mediamente, riesce a reggersi in piedi solo contando su bassi livelli salari e che, rivolgendosi quasi esclusivamente al mercato interno, è soggetta a ogni “tempesta” che le modificazioni della domanda interna possono innescare.

La moderazione salariale che i CCNL che si sono seguiti dal 1993 ad oggi ha perseguito nella maggior parte dei casi discende proprio da questo e da una concezione errata che sia necessario tutelare i posti di lavoro e non i redditi dei lavoratori, cosa che si vede perfettamente anche dagli ammortizzatori sociali esistenti, Cassa Integrazione Guadagni in primis.

Il punto principale da fissare in mente è che se un’azienda non riesca a reggersi in piedi sarebbe meglio per tutti che chiuda e che venga sostituita da un’altra realtà più moderna e redditizia, questo vale per le aziende di grandi dimensioni ma anche per il negozio sotto casa; può far dispiacere perdere un elemento, magari, storico sulla propria piazza, questo è vero, ma non sarebbe corretto per nessuno tenerlo in piedi con i soldi dei contribuenti (in caso di ricorso a misure come la CIG) né a spese dei dipendenti (con “contratti di solidarietà” o con, appunto, la mancata progressione dei salari).

Quando, infatti, si parla di tagliare le imposte e il cosiddetto “cuneo fiscale” per “lasciare più soldi nelle tasche dei cittadini” non si può non considerare che misure, sacrosante, come queste debbano avere le debite coperture finanziarie e, quindi, o tagliando la spesa (e la riforma dalle basi degli ammortizzatori sociali sarebbe, oggi, una necessità in tal senso) o spingendo la crescita, in modo tale che a maggiori redditi corrisponda, almeno, un gettito fiscale paragonabile a quello precedente anche di fronte ad aliquote più basse.

Altre possibilità non ne esistono e per spingere la crescita devono migliorare le aspettative e la fiducia degli operatori, non solo delle imprese, quindi, ma anche dei consumatori/lavoratori che sono la base della domanda interna che rappresenta il vero stabilizzatore di un sistema economico perché se anche l’export rappresentasse un terzo del PIL il restante sarebbe trainato dalla domanda interna, per consumi e investimenti.

A questo punto, ragionandoci bene, se la progressione salariale dipende dalla crescita di produttività e redditività, queste ultime dipendono dalla domanda estera e soprattutto interna la quale dipende dal livello dei redditi e dalle aspettative. Sembra un uroboro e, di fatto, lo è in quanto, in caso di crescita, si potrebbe parlare di circolo virtuoso e, in caso contrario, di circolo vizioso.

Oggi ci troviamo nel secondo caso e anche l’eccellenza della medio-grande impresa votata all’export non basta a fortificare le basi di un intero sistema economico ma come si potrebbe fare, quindi, a uscire da questa situazione di bassi redditi che, pare, quasi un vicolo cieco?

Qualcuno potrebbe indicare un “salario minimo” stabilito per legge ma siamo sicuri che sia efficiente? Per poter essere sostenibile dovrebbe essere assai contenuto, come la proposta lanciata dal M5S e fatta propria anche da CGIL e Partito Democratico che, alla fine, risulterebbe inferiore alla maggior parte delle previsioni economiche più basse di ogni CCNL esistente oggi poiché i 9 euro lordi orari proposti sono omnicomprensivi, poiché il DDL presentato in Parlamento indica che la somma rappresenterebbe “il trattamento economico complessivo, comprensivo del trattamento economico minimo, degli scatti di anzianità, delle mensilità aggiuntive e delle indennità contrattuali fisse e continuative dovute in relazione all’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa” (cfr. Proposta di Legge no. 1275 del 4 luglio 2023, art. 2) che, nel migliore dei casi, porterebbe a poco più di 7,6 euro lorde all’ora effettivi.

Una proposta sostenibile, invece, potrebbe essere quella di rafforzare la contrattazione di secondo livello, quella aziendale, che vada ad affiancare quella nazionale dei CCNL anche dal lato delle remunerazioni, perché non tutte le imprese sono uguali e permettere la differenziazione di offerta economica, non solo a livello di benefit ma anche di salario, permetterebbe di riaprire il mercato del lavoro mettendo in diretta concorrenza le aziende anche nella ricerca dei migliori collaboratori.

Oltre a un miglioramento dalle condizioni offerte dai datori di lavoro, una concorrenza diretta tra imprese anche in questo campo spingerebbe obbligatoriamente a investimenti e ad aggregazioni per poter attivare quelle economie di scala e raggiungere un livello di efficienza interna che permetta di sostenere le condizioni economiche offerte ai dipendenti che diverrebbero così realmente risorse fondamentali per lo sviluppo e la crescita dell’impresa e non un mero costo come, solitamente, sono considerati soprattutto nelle realtà più piccole.

A questo si potrebbe aggiungere una seconda idea, anche più semplice da realizzare, che sarebbe la possibilità spingere alla compartecipazione dei lavoratori dipendenti agli utili aziendali. Qui il legislatore dovrebbe venire in aiuto prevedendo degli interessanti vantaggi fiscali per quelle imprese che inseriscano contrattualmente una quota cospicua di utili pre-imposte come premio per i dipendenti.

Sembra una banalità ma una cosa simile andrebbe a motivare i dipendenti che vedrebbero direttamente un ritorno diretto e misurabile al loro lavoro e permetterebbe di innalzare sia i livelli di efficienza interni e le remunerazioni senza andare a incidere sulla sostenibilità del bilancio aziendale, avendone anche un vantaggio a livello fiscale.

Non si tratta, ovviamente, di meri premi di produttività come siamo abituati a sentire e che derivano da un accordo, stabilito anno per anno, tra datori di lavoro e rappresentanti dei lavoratori ma a una vera e propria compartecipazione agli utili, fissata con un accordo quadro e spinta dall’azione politica che rappresenterebbe un tassello importantissimo nel rilancio di tutto il sistema Italia.

L’idea, qui, è stata lanciata, chissà se qualcuno ne raccoglierà la sfida per portarla a terra o per proporre una soluzione migliore che non sia distorsiva del mercato perché come il lavoro non si crea per decreto così anche salari e redditi non possono crescere per decisione politica ma questa è necessaria per creare le condizioni, l’humus potremmo dire, per spingere lo sviluppo di un Paese e il benessere dei cittadini.

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