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Come la guerra fra Ucraina e Russia ha impattato sull’economia dell’Ue

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Foto di Steve Buissinne da Pixabay

Sono passati due anni dall’inizio delle ostilità con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e più di un anno e mezzo dalla previsione di un duro sistema di sanzioni verso Mosca nel tentativo di farla desistere tentando di fiaccare l’economia russa per farla rimanere senza risorse. Nel corso dei mesi si sono susseguite le cronache terribili delle azioni di guerra e i racconti di vittime e profughi, intervallati dalle notizie sulle grandi aziende in fuga dalla Russia e della sua economia vacillante che invece, oggi, sembra in buona salute mentre in Europa abbiamo dovuto fronteggiare diverse criticità e la domanda che può sorgere è “perché?”.

La risposta, in realtà, non è semplice ma ha delle forti basi logiche proprio sulla struttura del paese euro-asiatico e nelle debolezze nell’euro-area che si sono palesate perfettamente prima con la pandemia e, poi, con la perdita di uno dei partner economici che stava diventando, via via, più importante nel tempo e su cui in tanti avevano pesantemente investito.

Al di là di equivoci l’economia russa non sta andando a gonfie vele, come alcuni media hanno riportato, ma sta tenendo bene il colpo di una guerra assai costosa e della chiusura commerciale di partner strategici; sebbene Rosstat indichi una crescita del PIL del 3,6% nel 2023 questo va a compensare parte della recessione registrata nel 2022 quindi rispetto al 2021 la Russia è cresciuta di un 1,5% in due anni che è, comunque, un ottimo risultato visto lo scenario in cui si sta muovendo ma va anche analizzato il perché di questo risultato al netto del crollo delle esportazioni del suo prodotto principale, il gas naturale, che aveva come primo e quasi esclusivo cliente l’Europa.

La crescita del PIL è stata spinta soprattutto dalla domanda bellica per il sostegno alle azioni in ucraina che arriverà a coprire un terzo della spesa pubblica quest’anno, a questo va aggiunta una veloce reindustrializzazione perché la mancanza dei beni prima importati dall’estero si è dovuto equilibrarla cin una nova produzione interna, certamente meno sofisticata e con un livello tecnologico molto più basso rispetto a quello precedente.

La banca centrale, poi, ha sostenuto il tutto con una politica monetaria assai razionale, per evitare scossoni interni, cosa che ha permesso di evitare shock finanziari che avrebbero potuto minare la tenuta del sistema e, nel frattempo, come indicato da diversi articoli odierni è stato rafforzato l’export di beni non sottoposti a embargo, come il grano duro, che ha potuto aumentare la sua quota di mercato sfruttando una politica molto aggressiva sui prezzi. Ecco spiegata la grande tenuta economica russa, consumi interni invariati, anche con il sostegno del governo, aumento della spesa pubblica, sostegno all’export fuori dal perimetro delle sanzioni e riduzione all’osso dell’import.

Non è tutto oro quello che sembra, ovviamente, perché secondo una recente analisi di Bloomberg Economics la tenuta del sistema è, oggi, sostenuta dal fondo patrimoniale nazionale russo che ha liquidità ancora per uno o due anni massimo se il prezzo del petrolio andasse sotto i 50 dollari al barile ma alle quotazioni attuali, sopra i 70 usd, la capienza è garantita abbastanza a lungo per pensare di poter arrivare a una soluzione alla crisi ucraina condivisa e non imposta.

In soldoni le sanzioni non hanno avuto l’esito sperato anche perché nessuno ha fatto i conti con il fatto che il popolo russo ha sempre vissuto con poco, buona parte anche ai limiti della sussistenza soprattutto nelle zone asiatiche, e che la riorganizzazione del sistema economico, dopo la chiusura occidentale (e il tentativo di colonizzazione cinese seguente in cambio di tecnologia, non dimentichiamolo), per questo è stata molto più semplice del previsto.

In Europa, invece, la questione è stata un po’ diversa. Mentre a livello commerciale la chiusura del mercato russo non ha prodotto grandi sconquassi, se non per casi marginali di aziende che avevano focalizzato in Russia i loro clienti principali, visto che, ad esempio, per l’Italia rappresentava circa un 1,5% dell’export totale mentre per la Germania un 2.3% complessivo. La Russia come “grande cliente”, quindi, era solo un mito che si era creato negli anni e la perdita di quello sbocco commerciale è stata piuttosto relativa e facilmente compensabile su altri fronti; diversa la questione import. Questo perché i principali prodotti che la Russia esportava, prima della crisi ucraina, erano gas naturale e petrolio, rappresentando una quota importante degli approvvigionamenti di fonti energetiche soprattutto per la Mitteleuropa e per la Germania in particolare.

Dal lato italiano le importazioni riguardavano circa il 10% del fabbisogno nazionale che, però, era già in fase di forte riduzione prima del 2022 per via di una strategia di differenziazione dei fornitori che era stata messa in atto dal Governo Draghi già nei primi mesi dopo l’insediamento. Lo scoppio della guerra, però, ha portato a un peggioramento delle aspettative sui mercati spingendo verso l’alto i prezzi delle materie prime, soprattutto quelle legate alla produzione di energia, già sotto pressione dalla ripresa economica post pandemica; il risultato lo si vide nell’agosto 2022 quando il future sul gas naturale toccò il suo massimo a quasi 240 usd, cioè decuplicato rispetto alla media degli ultimi anni.

Questa impennata durò, in effetti, poco cioè solo qualche mese poiché a gennaio 2023 il prezzo si era già “normalizzato” sui livelli storici ma fu sufficiente per far schizzare i prezzi dell’energia ai massimi per diverso tempo, cosa che si propagò sul livello generale di questi ultimi. La BCE, a questo punto, per fronteggiare questi rincari, considerati erroneamente come inflazione, operò una poderosa stretta monetaria portando i tassi da zero al massimo storico in meno di un anno cosa che, oggi, sta creando non pochi problemi dal lato dei consumi e investimenti, spingendo alcuni stati dell’Unione in recessione, soprattutto quelli più legati al mercato russo per l’approvvigionamento di energia.

Dopo la caduta dell’economia nel biennio del Covid, quindi, la crisi russo-ucraina ha bloccato la ripresa ovunque, seppur alcuni stati con un tessuto più resistente, come l’Italia, abbiano subito un rallentamento e non una caduta ma gli effetti dei provvedimenti, soprattutto monetari, innescati dalla guerra continuano a persistere nonostante un miglioramento generale delle aspettative per il futuro.

Si può dire, quindi, che gli unici danneggiati dal conflitto siamo stati noi e che l’economia russa vada a gonfie vele? No, questo no. La Russia, come detto, sta “tenendo botta”, nel senso che sta mostrando una capacità di adattamento e di resistenza alla situazione molto alta ma non va dimenticato che tra il 2011 e il 2022 il PIL russo sia diminuito del 12% e i dati positivi dello scorso anno lo portano a un livello ancora di quasi il 9% inferiore a dodici anni fa mentre prendendo uno stato con una crescita non esattamente brillante come l’Italia la performance del PIL è stata negativa di “solo” il 3,3% nello stesso periodo, pur contando la caduta del 8,9% subita nel 2020 durante l’Annus Horribilis segnato da lockdown e restrizioni anti-pandemiche.

In definitiva la guerra, oltre al terrificante bilancio umanitario, mostra la sua forte componente antieconomica per tutti, creando disagi e danni in tutti gli stati coinvolti, direttamente soprattutto ma anche indirettamente, e che una soluzione condivisa, per quanto possibile, sia auspicabile sotto ogni aspetto.

Matteo Gianola: