Solo fino a qualche tempo fa la frase “le farò sapere” al termine di un colloquio di lavoro era tipica dell’HR o del datore di lavoro, prendendosi il tempo per decidere se assumere o meno il candidato; oggi, invece, questa dinamica sembra essersi ribaltata, cancellando anni e anni di stereotipi. Credo che molti abbiano letto sui giornali o sentito nei TG o nei GR della difficoltà delle aziende a reperire personale, talvolta parlando di un divario tra le competenze richieste e quelle possedute da chi si presenti ai colloqui ma più spesso ancora di appuntamenti saltati, di carenza di curricula ricevuti o di pretese troppo elevate da parte dei canditati.
La maggior parte delle volte, nelle analisi, i commenti si dividono tra i sostenitori di una sorta di “generazione Choosy”, per citare una famosa espressione dell’ex ministro Elsa Fornero di qualche anno fa, e chi si focalizzi sulle offerte scandalose a livello retributivo e di orari di lavoro che sono, sicuramente, dei fattori presenti e importanti, soprattutto la questione salariale che, non è un mistero, è una delle criticità del sistema Italia e che vede le remunerazioni, nonostante dei rinnovi contrattuali anche molto buoni avvenuti nell’ultimo anno, al palo da anni e in calo, a livello reale, rispetto al livello degli anni 90 del secolo scorso ma non sono le sole.
Nel corso degli anni, infatti, pare si sia ribaltato il processo di selezione vedendo i candidati come protagonisti principali, a fronte di una domanda crescente di lavoratori qualificati. Oggi, infatti, il lavoratore non è più un “ingranaggio” del sistema produttivo facilmente sostituibile ma un tassello imprescindibile nel raggiungimento degli obbiettivi aziendali e nella creazione di quella redditività necessaria a far crescere l’impresa, in pratica non si tratta più di un mero costo produttivo ma di un vero e proprio investimento perché nessuno assume una persona per “fargli un piacere” ma perché la sua figura e le sue competenze vanno a risolvere una criticità che si è presentata o per spingere produttività e redditività.
Questa consapevolezza, unita alla diminuzione dell’offerta di lavoro per via del continuo calo demografico, porta una maggiore capacità contrattuale a chi stia cercando un lavoro, permettendogli in primis di scegliere l’azienda che più gli interessi e in secundis di poter valutare le condizioni di lavoro. Talvolta, sui social media, si leggono commenti indignati di pseudo-liberali o di sedicenti professionisti che chiedono, in maniera canzonatoria spesso, cosa possa fare un giovane che abbia rifiutato un posto di lavoro, raccontando di esperienze di lavoro gratuito o, addirittura, pagando di tasca propria per “fare esperienza” ma dimenticando che la risposta più logica è “sceglie un altro lavoro”.
La dinamica di mercato si applica anche al segmento del lavoro, infatti, e se la domanda fosse superiore all’offerta, come oggi avviene in diversi campi, significa solo che il prezzo di equilibrio deve alzarsi. Questo prezzo, poi, non si traduce più nel mero salario ma al pacchetto complessivo a cui si accederebbe accettando la proposta di lavoro: mansioni, salario, condizioni di lavoro, flessibilità in questo ordine come indicato recentemente da un’indagine condotta da GIDP (l’associazione che riunisce i responsabili HR). Dall’analisi dei dati sul panel il risultato, per molti, sorprendente è che oggi, in buona parte dei casi, il processo di selezione si sia ribaltato e siano i lavoratori a scegliere le aziende e non il contrario.
La discriminante, poi, tra l’accettazione o meno del posto di lavoro, come già anticipato, non è più meramente il salario ma il tipo di mansioni a cui si sarà destinati e la possibilità di accesso al WFH o al lavoro da remoto e una maggiore conciliazione vita-lavoro. Non è un caso che in più di un terzo dei casi, come conferma un’altra indagine svolta da Adecco, se l’azienda non soddisfa le aspettative e le esigenze dei candidati l’ultima parola di questi ultimi sia quel “le farò sapere” che si trasforma in un battito di ciglia in un rifiuto della posizione o in dimissioni già durante il periodo di prova se il test sul posto di lavoro non sia soddisfacente.
Qualcuno, citando un celebre libro di questi ultimi mesi, potrebbe pensare a un “mondo all’incontrario”, a un ribaltamento assurdo dei ruoli, ma si tratta semplicemente di rigidità a livello di ragionamento unita a una certa non conoscenza dei fondamentali di economia.
Già si accennava sopra al fatto che anche il lavoro soggiace alle regole del mercato in cui non c’è solo un attore con capacità decisionale, il datore di lavoro che rappresenta la domanda, ma si tratta di una relazione biunivoca con il lavoratore, che rappresenta l’offerta. Pare evidente, quindi, che in periodi caratterizzati da un’elevata offerta di lavoro e una scarsità di domanda la parte datoriale sia in una posizione di vantaggio potendo contare su una riduzione del prezzo (quindi contenendo il costo del lavoro) e potendo operare delle scelte su una platea più ampia; tutto cambia qualora le condizioni di mercato mutano con un restringimento dell’offerta e, quindi, quando la possibilità di scelta passa dal lato dei lavoratori che, a questo punto, potranno non solo pretendere un prezzo più elevato per accettare la proposta di lavoro ma addirittura scegliere da chi farsi assumere.
Con gli anni segnati dalla pandemia questo fenomeno ha iniziato ad essere evidente nei settori legati a turismo e ristorazione, soprattutto, che, storicamente, erano caratterizzati da basse remunerazioni e un impegno orario piuttosto gravoso poiché con le restrizioni tanti lavoratori hanno deciso, semplicemente, di cambiare settore lavorativo e chi è rimasto si fa forza del maggiore potere contrattuale per pretendere condizioni di lavoro migliori.
Con il tempo, però, questo fenomeno ha iniziato a diffondersi anche in tutti gli altri settori, complice anche un certo mutamento nell’approccio al mondo del lavoro delle nuove generazioni che non lo vede più come una necessità per affermarsi ma “solo” come un mezzo per ottenere l’indipendenza economica e attuare il proprio “progetto di vita personale”, quindi il lavoro al servizio della propria vita e non più il contrario come le generazioni precedenti sono state abituate a considerarlo.
Da qui l’indisponibilità ad accettare remunerazioni non consone al costo della vita nemmeno come salario d’ingresso, ad esempio, ma anche condizioni di lavoro che vadano a cancellare o quasi la propria vita privata o le proprie aspirazioni. Ecco che le mansioni, per prime, diventano un cancelletto decisionale non bypassabile perché l’aspetto della soddisfazione personale nello svolgere un lavoro è considerato imprescindibile o l’accesso al c.d. smart working per permettere di conciliare al meglio ‘aspetto privato con le esigenze lavorative evitando, magari, continui e penalizzanti spostamenti per raggiungere la sede lavorativa.
Questo ha portato proprio il lavoro agile a diventare un asset strategico per le aziende, per poter attirare nuovi talenti che in mancanza di esso non si farebbero remore a rifiutare il posto di lavoro. Certo sono comprensibili certe inquietudini da parte di certe organizzazioni sindacali sulla questione, poiché il timore che un lavoro completamente in remoto possa essere prodromico a una delocalizzazione completa dello stesso verso zone con costo del lavoro inferiore, spingendo magari a licenziamenti in massa, è logicamente presente ma è proprio uno dei compiti del sindacato andare a regolamentare l’accesso e l’uso del lavoro a distanza con accordi aziendali diretti o accordi quadro di categoria a tutela di professionalità e livelli occupazionali, non certo ostacolare l’evoluzione del mercato che è sempre ben più veloce di quanto vorrebbero molti attori.