In questa Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili, la prima riflessione riguarda il dovere di salvaguardare la dignità e il corpo delle donne da una pratica che le mutila nel fisico solo per motivi culturali, non di certo socio-sanitari. Noi, dal canto nostro, dobbiamo impegnarci per salvaguardare l'integrità di tante bambine che al mondo subiscono una pratica voluta dai loro genitori che sperano possa portare a un buon matrimonio e al successo. Crediamo che bisogna insistere nella formazione e implementazione di ambiti come la scuola e il lavoro, perché il danno fisico si riverbera in un danno psicologico che le donne che ne sono vittime portano con sé tutta la vita.
All'alba del 2020 possiamo girarci indietro e vedere i passi in avanti che sono stati fatti nella sensibilizzazione e la consapevolezza del fenomeno, che fino a poco tempo fa era relegato solo ad alcuni specialisti. Ma il numero delle donne infibulate è aumentato. Tenuto conto che la pratica spesso avviene fra la mura domestiche, le stime ufficiali delle Nazioni Unite riportano che sono circa 250 milioni le donne che hanno subito pratiche di mutilazione genitale, in gran parte nell'Africa subshariana, ma anche in Medio ed Estremo Oriente. Ancora oggi sono a rischio circa tre milioni di bambine nel mondo. Tra l'altro, dallo studio dei numeri e delle stime matematiche, si prevede che, se non si dovesse intervenire prontamente, almeno 68 milioni di ragazze sarebbero infibulate nei prossimi dieci anni. Lo dicono le Nazioni Unite.
La mutilazione femminile è un fenomeno esteso a macchia di leopardo e legato all'appartenenza a clan e a gruppi etnici. In alcuni paesi, come l'Egitto per esempio, fino al 2007 era possibile subire la pratica in uno studio medico. Il numero è elevato riflette una pratica di identità culturale ed è per questo che la strategia deve essere culturale. Noi lavoriamo in Africa e in Medio-Oriente, creiamo un rapporto con le donne, le madri e le loro figlie. In quell'ambito materno e infantile, formiamo le cosiddette community health worker, e questo ci consente di stare con loro ed entrare nel merito di questa problematica. Questo significa che dobbiamo investire in questi Paesi con opportunità scolastiche e di lavoro, e dall'altro trovare donne che la praticano e accettino di fare un lavoro di assistenza alle donne in gravidanza.
Spesso si sottovalutano le conseguenze dei vari tipi di mutilazione. Più l'intervento è massivo, più le conseguenze sono gravi, addirittura si provoca la morte delle bambine talvolta. Altri pericoli sono le infezioni, il tetano, i disturbi della sessualità e quelli psicofisici, altri si reiterano nel tempo, come la formazione di cicatrici che determina la chiusura del canale e che costringe al parto cesareo. In alcune regioni africane, è difficile operare con un cesareo, per cui capita che le donne muoiano.
Ma le mutilazioni femminili sono anche causa di discriminazione. In molti villaggi dove la pratica è molto diffusa, le famiglie che non accettano l'infibulazione delle loro bambine vengono emarginate. Vivono, così, sulla pelle il paradosso di aver rifiutato questa pratica: è un problema serio che va affrontato per far sì che aumenti il numero delle famiglie che abbandonano questa pratica.
L'Italia è all'avanguardia nel contrastare queste pratiche e con l'impegno nelle assise parlamentari europee. Mancano, tuttavia, risorse finanziarie e professionali per queste donne. Da parte nostra, abbiamo il dovere di accogliere ed integrare queste persone, altrimenti il rischio di ghettizzazione porta come conseguenza anche la reiterazione tali pratiche. Su suolo italiano, non abbiamo prove che l'infibulazione sia stata praticata, ma abbiamo avuto riscontri di bambine accompagnate nei loro Paesi d'origine per salutare nonni e sottoposte a infibulazione. Il rischio, dunque, è ancora alto, per cui ritengo che si debba essere in costante attenzione.