Il 2020, per lo zodiaco cinese, è l’anno del topo ma, a livello globale, sarà ricordato, credibilmente, come l’anno del cigno nero. Le misure precauzionali per evitare il contagio da Covid-19 unite al crollo delle aspettative e dei consumi che si è verificato nei primi tre trimestri dell’anni, hanno causato una vera e propria contrazione della maggior parte delle economie più sviluppate, peggiore rispetto alle crisi passate.
In statistica e nel gergo finanziario è bene ricordare che un evento simile prenda il nome di “cigno nero” che Nassim Nicholas Taleb, colui che lo abbia ipotizzato, lo definì come “un evento isolato e inaspettato, che ha un impatto enorme, e che solo a posteriori può essere spiegato e reso prevedibile” cioè un evento con una bassissima probabilità di verificarsi ma che possiede un altissimo potenziale di danno.
Nonostante i mercati finanziari abbiano già recuperato il gap causato dalla recessione che sta montando e le aspettative stiano migliorando dopo l’annuncio della conclusione della fase 3 delle sperimentazione del vaccino, nonostante le solite Cassandre mediatiche, l’anno si chiuderà con tassi di crescita negativi, anche fortemente negativi, in tutto il mondo… in tutto il mondo tranne che in Cina!
Questa potrebbe sembrare una cosa singolare visto che da lì è partita la pandemia che ha contagiato il mondo e la zona di Wuhan ha subito uno dei lockdown più duri che la storia recente ricordi ma, c’è un ma, si parla di una zona che, per quanto ampia, non ha bloccato l’intera economia di uno stato che, per dimensione e popolazione, può essere quasi considerato un continente a sé.
Questo ha permesso, ad esempio, che le aziende del Guangdong, non fossero toccate dai provvedimenti restrittivi e abbiano potuto proseguire a lavorare, così come i mercati finanziari di Shangai, riducendo, di fatto, il danno che il contenimento dell’epidemia abbia arrecato all’economia nazionale.
Il dubbio che sorge, però, è come sia stato possibile che il virus abbia infettato il mondo e abbia avuto un effetto così lieve sulle altre province cinesi.
Da questo dubbio arrivare a ipotizzare che tutti i numeri che vengano dalla terra dei draghi siano, in qualche modo, manipolati il passo è brevissimo.
Si è già detto che la Cina cresca ininterrottamente da quarant’anni a un livello del 9% abbondante medio, anche se negli ultimi periodi c’è stato un certo rallentamento ma è veramente possibile mantenere questi livelli nonostante le varie crisi economiche che si sono succedute nel mondo dagli anni 80 del secolo scorso ad oggi?
Qui si giunge al punto focale su come venga calcolato il tasso di crescita cinese e un aiuto alla comprensione lo troviamo in un articolo di qualche settimana fa su El Pais, ripreso, poi, da Start Magazine.
Commentando la serie storica della crescita cinese Michael Pettis, professore di finanza all’università di Pechino, dice “mentre in molti paesi il PIL è una conseguenza dell’attività economica, in Cina è un riferimento […] Il governo stabilisce una cifra e poi i livelli inferiori di governo devono fare ciò che è necessario per raggiungerla. La cosa più importante è sapere di quanta crescita hanno bisogno per motivi politici, che in sostanza si riduce ad evitare che la disoccupazione aumenti, in modo che non diventi un problema.”
Ecco che si spiega così il vero nodo gordiano nell’interpretazione dei dati, di provenienza politica, tanto che si sta cercando di trovare degli indicatori più verosimili.
La società di consulenza Capital Economy, ad esempio, ha elaborato una metrica differente da quella usata comunemente chiamata China Activity Proxy (CAP) e che si basa su alcuni indicatori macroeconomici secondari; il risultato è estremamente interessante perché mentre ufficialmente la Cina è cresciuta di circa il 48% in cinque anni, con il nuovo sistema la percentuale si riduce al 33% con un calo vistoso tra il 2015 e il 2016 corrispondente alla decisione della Banca Centrale di allentare i vincoli di politica monetaria.
Se pur non precisa o dettagliata come la stima fornita da un istituto di statistica nazionale indipendente, questa stima del PIL permette di individuare delle correlazioni maggiori con variabili come la bilancia commerciale, lo sviluppo delle PMI e i profitti aziendali rispetto alle metodologie standard usate in questi casi.
Valutando questi dati è evidente anche all’occhio meno esperto che qualcosa non torni nei tassi di crescita dichiarati.
Oddio non si può parlare di tassi inventati come erano, invece, quelli dell’URSS decenni fa perché è innegabile che la Cina cresca a vista d’occhio e che abbia il potenziale per farlo ancora per decenni, anche solo considerando il mercato interno una volta abbandonata l’idea della prevalenza all’export che, oggi, ha il suo modello di sviluppo, cosa che sarà obbligata, prima o poi, per la saturazione dei mercati e per la risposta che arriverà dai competitor mondiali.
Nonostante questo qualcosa continua a non tornare e quel qualcosa è la modalità di finanziamento della crescita.
È difficile parlare solo di debito pubblico laggiù, vista la commistione, oggi, ineludibile tra politica, finanza e produzione quindi occorre valutare il debito aggregato.
In realtà il valore di questo è un parametro importante ovunque, permette di giudicare la sostenibilità finanziaria di un paese, anche se per certi osservatori il debito privato non conti l’esempio dell’Islanda, con un default causato dall’insolvenza del settore privato che ha causato una crisi a catena di tutto il comparto finanziario, deve essere da monito a tutti.
Se, infatti, il debito pubblico di Pechino si assesti intorno al 50% del PIL, il debito aggregato aveva già raggiunto un livello pari al 317% del PIL già nel 2018, superando quello degli USA anche se ancora inferiore a quello di molti stati europei (non quello dell’Italia, però, che a fronte di un elevato tasso di indebitamento pubblico mostra un basso livello di indebitamento privato, contratto soprattutto per investimenti fondiari).
La composizione del debito, poi, è molto interessante, poiché a fronte di un sesto del livello complessivo rappresentato dal debito pubblico e una quota similare rappresentata dal debito delle famiglie, oltre due terzi sono rappresentate dall’indebitamento delle aziende equamente ripartito tra aziende private e c.d. SOE (le State Owned Enterprises) che, oltre ai finanziamenti diretti da parte dello stato possono indebitarsi liberamente con il sistema finanziario creando, di fatto, una quota di debito pubblico occulto.
Questo rappresenta un fattore di rischio assai elevato che, unito alle prime insolvenze che la situazione dei mercati quest’anno renderanno assai probabili con un aumento stimato del 120% su base annua secondo Atradius, una delle società leader mondiali nelle assicurazioni creditizie, rende assolutamente probabile un futuro consolidamento dell’economia cinese che andrà di pari passo all’aumento del benessere e dei consumi interni e che fungerà da freno alla crescita impetuosa di questi anni ma che, per contro, aprirà nuovi scenari per investimenti e opportunità professionali, internamente e da parte degli operatori esteri.