E'una bella domenica primaverile, l’aria è tiepida e il sole brilla nel cielo, tu decidi di passare una giornata al lago con un pic nic in famiglia; hai già programmato tutto e preparato quello che serve, bevande, panini, salamelle e costine da fare alla griglia, dolci, ma ecco che decide di unirsi anche un amico con moglie e figli, spinto dalla giornata promettente, ed ecco che le provviste non sono più sufficienti. Nessun problema, dirai, una scappata al supermercato e via ma no… quella domenica è stata imposta la chiusura del centro commerciale per legge. Questa potrebbe essere la cronaca di una possibile giornata se si tornasse indietro sulla liberalizzazione delle aperture degli esercizi commerciali come paventato dalle forze di governo. Certo tanti anni fa era così, quando ero bambino la domenica erano aperti solo bar, non tutti, e ristoranti; a Natale le aperture straordinarie nel periodo precedente erano viste come l’annuncio della festa imminente ma la domenica anche solo pensare di poter fare un giro in centro era come dire “vado nel deserto” a meno che non si abitasse in una zona turistica. Oggi non è più così, le vie del centro città sono vive di gente che gira per vetrine, fa un salto in libreria, si concede un po’ di tempo per gli acquisti che, se avesse dovuto farli nel corso della settimana, sarebbero stati condotti di fretta, nel breve lasso di tempo tra l’uscita dal lavoro e la chiusura serale degli esercizi.
L’obiezione che si potrebbe sollevare, di fronte a questa narrazione, è che non si consideri il diritto dei commessi a passare la domenica in famiglia o di riposarsi dalle fatiche della settimana, che queste cose le possa scrivere una persona che, comodamente, lavori dal lunedì al venerdì e che non sappia cosa sia lavorare nelle festività. Non è così, però. Inutile mostrare esempi esteri, come quelli dei Paesi mitteleuropei, dove la maggioranza dei negozi resta chiusa la domenica: la tendenza mondiale è quella di liberalizzare gli orari di apertura per far fronte alle esigenze di una società sempre più fluida ed interconnessa, che domanda servizi 7 giorni su 7 per conciliare al meglio tempo libero e lavoro. Imporre, poi, la chiusura obbligatoria dei negozi, prima ancora del danno economico, è da una parte una limitazione alla libertà di impresa, cosa palese perché si mette un vincolo di legge anche alla decisione di quando operare, e dall’altra una discriminazione inaccettabile fra le categorie di lavoratori.
Quest’ultimo punto è assai importante. Perché questo sarebbe un provvedimento discriminatorio? Perché si andrebbe a toccare solo alcune categorie di lavoratori, quella dei commessi e di coloro che operano nella Gdo, mentre tutti coloro che lavorassero in altri settori, come la sanità, la sicurezza, la ricezione turistica, la ristorazione ma pure le telecomunicazioni, l’industria, la produzione energetica, ecc. non ne sarebbero toccati perché la natura stessa di questi comparti esclude la possibilità di un fermo obbligato nel fine settimana se non addirittura di un fermo obbligato tout court. Il “diritto” di passare un giorno in famiglia o con gli amici, quindi, sarebbe limitato solo ad alcuni mentre per altri questo non sarebbe minimamente ipotizzabile. Detto questo, l’enfasi posta sulla questione non considera il fatto che le aperture continuative 7/7 o, addirittura, h24/7, come per una nota catena di supermercati, portino occupazione e l’ipotesi ventilata di chiusura festiva obbligata potrebbe costare fino a 50'000 posti di lavoro solo nella Grande Distribuzione, in termini relativi si parla, infatti, di un 10% circa della forza lavoro oggi impiegata.
A voler essere precisi, però, molti hanno messo in dubbio l’opportunità e le vere cifre del ritorno economico riferite alla liberalizzazione delle aperture che è seguita al cosiddetto “Decreto Salva Italia” perché, come indicato da uno studio condotto dall’ Università Politecnica delle Marche qualche anno fa, non sembrerebbe che ci siano dei vantaggi relativi al fatturato: le vendite in aggregato non muterebbero sostanzialmente, aumentando nel weekend ma diminuendo nel resto della settimana, e il personale addetto, in più, avrebbe riscontrato una diminuzione del tempo libero a disposizione, aumentando così stress e affaticamento. Il problema che l’università non ha considerato è che la concorrenza non è più legata alla territorialità ma, con l’accesso sempre più diffuso alla rete informatica, questa si è estesa se non al mondo intero, almeno agli stati limitrofi (come sanno bene i negozianti di confine in Svizzera che chiedono da anni di liberalizzare le aperture anche da loro). L’apertura domenicale, per dire, è prima di tutto una vetrina che permette alla gente di vedere e acquistare quello che si vuole quando si vuole, se il negozio dove si è visto l’oggetto desiderato fosse chiuso chi impedirebbe che, una volta rientrati a casa, questo non venga ordinato su Amazon?
Qual è la differenza fra il dover aspettare di essere libero per tornare al negozio o aspettare i tempi di consegna che con Amazon Prime potrebbero essere di sole 24 ore dalla chiusura dell’operazione sul sito? Il punto saliente, dal lato delle liberalizzazioni delle aperture, riguarda le tutele per i lavoratori dipendenti che, però, non si realizzano obbligando i riposi ma garantendo la certezza dei termini contrattuali. È evidente che se l’orario pattuito fosse di 40 ore settimanali, con massimali di straordinario e compensazioni per il lavoro festivo, il tutto unito al diritto, inalienabile, al giorno di riposo, ad esempio, questi andrebbero fatti rispettare e la questione virerebbe a livello dei controlli e dell’eventuale tutela giudiziale. Il rispetto dei Ccnl e degli possibili contratti ad personam (che non possono, però, essere peggiorativi rispetto alla contrattazione nazionale) deve essere garantito e l’azione politica dovrebbe andare in questo senso, non limitare la libertà di chicchessia ma garantire la certezza dei contratti a maggior tutela di aziende e lavoratori. I vantaggi sarebbero molteplici, in questo caso, si manterrebbe un incentivo ad assumere per garantire la continuità operativa degli esercizi commerciali e si darebbe un input fondamentale agli investimenti nel Paese con una vera certezza del diritto che, oggi, non esiste e che rappresenta un punto debole anche superiore alla pressione fiscale nell’attrattività del sistema. Certo non ha la forza immaginifica della domenica festiva per tutti (o quasi, come si scriveva prima) e non avrebbe, credibilmente, lo stesso ritorno elettorale nel breve ma sarebbe una vera rivoluzione che mostrerebbe la differenza vera fra populisti e statisti.