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La vera “challenge” per i giovani: riscoprire il significato e la bellezza della vita

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Di avvenimenti insoliti ormai è pieno l’universo. Tuttavia, quel che sta accadendo ultimamente ha un “quid” di preoccupante e allarmante. Ormai di uso comune è il termine “challenge”, che fa riferimento alle cosiddette sfide (o challenge social, per l’appunto) le quali sono sempre più diffuse sul web e suscitano l’interesse di un gran numero di persone, coinvolgendo soprattutto i bambini e gli adolescenti. Non si tratta di una consuetudine che comporta pericoli di per sé, ma è bene conoscerne le dinamiche e le possibili implicazioni per proteggere i più piccoli.

Con “challenge estreme” si intendono, invece, le sfide per compiere atti di presunto “coraggio”: “BlackOut Challenge” ed “Hanging Challenge”, ad esempio, sono nomi di sfide in cui si prevede che “il partecipante” stringa una cintura attorno al collo e resista il più possibile. Non ci sono evidenze ancora della presenza in TikTok (o in altri social) di questo fenomeno e quanto sia effettivamente diffusa, ma di challenges estreme si parla da molto (ad esempio, il fenomeno “Blue Whale”) e con esse si intende una pratica che può suggestionare ragazzi e ragazze ed indurli progressivamente a compiere atti di autolesionismo, azioni pericolose (sporgersi da palazzi, cornicioni, finestre, ecc.), selfie pericolosi, sino ad arrivare ad azioni suicidarie.

Questa suggestione può essere operata dalla volontà di un adulto (o gruppi di adulti) che aggancia via social e induce la “vittima” alla progressione nelle “tappe” della pratica oppure sui social o gruppi di messaggeria nei quali i ragazzi stessi si confrontano sulle varie tappe, si incoraggiano reciprocamente, si incitano a progredire nelle azioni pericolose previste dalla pratica, mantenendo gli adulti significativi ostinatamente all’oscuro. L’effetto emulazione è l’elemento più pericoloso. Per questo occorre parlare di questi fenomeni con attenzione. Ad oggi si conosce poco della reale correlazione tra casi di suicidio e la partecipazione a una challenge. Quello che è noto è collegato alle fragilità della pre-adolescenza e dell’adolescenza che sono tante e durante le quali gli atti di autolesionismo possono essere molto diffusi (a prescindere dall’utilizzo della tecnologia).

Di certo, però, ultimamente vi sono dati e notizie che destano allarme, stupore e timore in ottica futura: nel 2016 in Russia è dilagata la “Blue whale” (la balena azzurra), come una piaga sui social, rimbalzando sugli smartphone degli adolescenti di tutto il mondo.

In cosa consiste? In una prova estrema fatta di 50 regole tanto pericolose quanto assurde: arrampicarsi sui cornicioni, saltare giù dai palazzi, tagliarsi le vene e tanto altro… Dietro le quinte di questo macabro palcoscenico social un “curatore” pronto a incitare i più giovani a misurarsi con il proprio coraggio. Si tratta di uno studente russo di psicologia, Philip Budeikin, che, processato, durante l’interrogatorio, definì le sue vittime come scarti biologici meritevoli di morire perché nocivi a loro stessi e alla società. I suicidi causati dall’avvento della scia della “balena azzurra” tra giovani e giovanissimi sono aumentati a dismisura.

Da poco tempo ci sarebbe la prima condanna ai danni di un “curatore” (o “tutor”), ovvero uno dei personaggi che, in maniera anonima, ordinava agli adolescenti di compiere atti autolesionistici, attraverso le 50 prove di coraggio suddette. Dopo due anni di processo, il giudice della del Tribunale di Milano, Dott.ssa Martone, ha deciso di condannare a un anno e mezzo di carcere una 25enne. I reati scritti nella sentenza sono quelli di violenza privata aggravata e atti persecutori aggravati. Alla 25enne milanese sono state concesse le attenuanti generiche e la sospensione condizionale della pena. Secondo quanto ricostruito nel corso delle indagini condotte dal pm Cristian Barilli, tra il maggio e il giugno 2017 la “curatrice” aveva contattato la sua vittima, una 12enne di Palermo, su Instagram e Facebook, con la complicità di una 16enne di origini russe. Dopo averla convinta di essere una organizzatrice della Blue Whale challenge, aveva iniziato a ordinarle cosa fare. Il primo passo per “diventare una balena”, cioè un partecipante del gioco perverso, sarebbe stato quello di incidersi la parola “yes” sulla gamba. Se la 12enne non avesse trovato il coraggio di farlo, avrebbe dovuto seguire ulteriori istruzioni: “Tagliati molte volte per autopunirti”. Davanti alle titubanze della giovanissima, arrivavano intimidazioni e addirittura minacce di morte. La “curatrice”, all’epoca dei fatti 20enne, aveva riferito alla piccola di conoscere il suo indirizzo ed essere in grado di trovarla con molta facilità. A scoprire la vicenda fu una giornalista che indagava sulla Blue Whale, il quale, scoprendo i pericolosi scambi con la ragazza di Milano, denunciò la vicenda alla Polizia postale.

“Black out”, “Chocking game”, “Pass-out game” sono le “pratiche” più in voga tra giovani e giovanissimi negli ultimi tempi. Ma se i nomi cambiano, la folle sfida che rimbalza dalle chat ai social è la stessa: comprimersi la carotide sino a soffocare.

Proprio come ha fatto la bimba di 10 anni, morta poche settimane fa a Palermo dopo essersi provocata l’asfissia con la cintura del papà. Voleva sfidare i suoi coetanei alla “Black out” per dimostrare di essere la “regina delle challenge”. E invece è morta in ospedale dopo giorni di agonia. Assurdo e disarmante.

Esiste, inoltre, chi al gioco della morte preferisce la sfida del dolore. E anche in questo caso le regole del gioco le detta una “challenge”. A voler essere precisi la “Knock out challenge”, che consiste nel dare un pugno a uno sventurato che passa per strada. Solo per il gusto di fare del male e vedere cosa succede.

Ve ne sono tante altre in diffusione:

  • “Skullbreaker challenge”, una vittima al centro e altri due ragazzi che sgambettano lo sfortunato che cade rovinosamente con la schiena per terra. Tutto rigorosamente a favore di videocamera o in diretta sui social);
  • “Jonathan Galindo”, la challenge con protagonista il personaggio di fantasia che le cui sembianze ricordano quelle di Pippo della Disney. Una challenge che induce i giovanissimi frequentatori di internet ad atti di autolesionismo, sino a gesti estremi come quello verificatosi nei mesi scorsi a Napoli dove un bimbo di soli 10 anni si è lasciato cadere dal balcone della sua cameretta, lasciando un bigliettino nel quale parlava di un uomo con il cappuccio da seguire;
  • “The Ring”, challenge che si ispira ai personaggi di film come la spettrale Samara;
  • “Batmanning”, chi si appende a testa in giù sui cartelli stradali per sfidarsi;
  • “Eyeballing”, chi si getta la vodka negli occhi come impone la “Eyeballing”;
  • “Bird box challenge”, chi guida a occhi chiusi sfidando la morte per vincere la “sfida”;
  • “Plaking”, gruppi di ragazzini si nascondono dietro le macchine in sosta e si piazzano improvvisamente davanti quando le auto sono pronte a partire. E il rischio di finire investiti, naturalmente, è altissimo.

Lo sgomento e lo sconcerto anche solo nel riportare tali notizie è alto. Anche per tale motivo, è urgente offrire alcuni suggerimenti:

  • occorre non dare per scontato il grado di autonomia che possono avere nell’uso delle tecnologie digitali e non avere paura di stabilire regole anche sulla condivisione delle attività e sui tempi di utilizzo;
  • la gestione della propria identità online va supportata, soprattutto agli inizi della loro vita social, sempre cercando di non risultare invadenti;
  • parlare, interessarsi e prevenire sono le parole chiave, dunque, per evitare di trovarsi coinvolti in situazioni rischiose;
  • gli adolescenti vanno supportati nel riconoscimento e nella gestione delle proprie emozioni, nello sviluppo di autonomia, responsabilità e senso etico. Devono imparare ad esercitare il proprio pensiero critico anche quando sono online, quando cioè provare empatia per l’altro è più difficile, perché scatta un meccanismo di de-responsabilizzazione e di distacco. Devono sapere che se si ritrovano in una situazione più grande di loro, possono chiedere aiuto e possono chiederlo e riceverlo anche se si sono messi nei guai.

La polizia postale impegnata in prima linea sul tema offre questi consigli ai grandi, ai genitori:

  • parlate ai ragazzi delle nuove sfide che girano in rete in modo che non ne subiscano il fascino se ne vengono al corrente da coetanei o sui socialnetwork;
  • assicuratevi che abbiano chiaro quali rischi si corrono a partecipare alle challenge online. I ragazzi spesso si credono immortali e invincibili perché “nel fiore degli anni”: in realtà per una immaturità delle loro capacità di prevedere le conseguenze di ciò che fanno potrebbero valutare, come innocui comportamenti letali;
  • alcune challenge espongono a rischi medici (assunzione di saponi, medicinali, sostanze di uso comune come cannella, sale, bicarbonato, ecc.), altre inducono a compiere azioni che possono produrre gravi ferimenti a sé o agli altri (selfie estremi, soffocamento autoindotto, sgambetti, salti su auto in corsa, distendersi sui binari, ecc.);
  • monitorate la navigazione e l’uso delle app social, anche stabilendo un tempo massimo da trascorrere connessi. Mostratevi curiosi verso ciò che tiene i ragazzi incollati agli smartphone: potrete capire meglio cosa li attrae e come guidarli nell’uso in modo da essere sempre al sicuro;
  • se trovate in rete video riguardanti sfide pericolose, se sui social compaiono inviti a partecipare a challenge, se i vostri figli ricevono da coetanei video riguardanti le sfide, segnalateli subito a www.commissariatodips.it ;
  • tenetevi sempre aggiornati sui nuovi rischi in rete con gli ALERT che vengono pubblicati sul portale www.commissariatodips.it e sulle pagine Facebook “Una Vita da Social” e “Commissariato di PS Online”.

Infine, sento profondamente di voler rinnovare l’importanza della ricerca del dialogo e dell’ascolto. Ci sono “zone oscure” laddove si può giungere con la pazienza, con la perseveranza, andando a cogliere la frustrazione interiore che alberga dietro o/e dentro l’individuo sia che ne sia consapevole sia che non lo sia. Solo richiamando alle regole, all’esame di realtà, si può cambiare lo status quo della persona in difficoltà. Se non si riconosce in un giovane il suo desiderio profondo, se non si indaga la sua frustrazione di base, il suo disagio intimo, non lo si può incontrare.

Il giovane va incontrato là dov’è, non dove vogliamo noi o/e come lo desideriamo noi ma come lui e dove lui è. Solo allora riconosceremo nel bambino, nell’adolescente, nel giovane ciò che fin dal principio era in grado di diventare: un essere in contatto sano con sé e con il mondo. In questa “battaglia” odierna c’è la vera sfida cui i giovani dovranno tendere: riscoprire significato e bellezza della vita. Non devono perdere la speranza.

Non la perderanno se noi per primi saremo in grado di trasmetterla attraverso l’agire concreto e la nostra testimonianza. Sarà il modellamento una via funzionale per i giovani perché si riapproprino di una speranza concreta e non illusoria. Perché ciò avvenga, i primi a non perdere la speranza dovremo essere noi.

Dobbiamo iniziare subito ad osservare con attenzione, ascoltare in maniera attiva e dialogare con empatia. Con uno sguardo così proteso verso l’altro potremo incontrare i giovani e la balena azzurra farà meno paura…

Nel mare della vita, l’entusiasmo e l’amore per essa avranno sempre la meglio. Non abbiamo, però, tempo da perdere. L’urgenza è qui e ora. La vera sfida inizia sin da ora, sin da questo istante, nell’incontro profondo da persona a persona. La vera sfida dell’educazione di oggi è questa. La vera challenge possiamo vincerla noi, attraverso uno “strumento” invincibile: l’incontro profondo e autentico, da persona a persona.

Prof. Alfredo Altomonte: