Nel Mar Mediterraneo: da una parte l’Europa, dall’altra l’Africa. E in mezzo: non più un set privilegiato di cartoline vacanziere ma il cimitero angosciante dei naufragati senza nome. Nel mondo: muri che franano e altri che minacciano di essere costruiti. Fame, sangue, disperazione.
Proteste, populismi, guerre. Globalizzazione? Protezionismo? Europa? Sì. No. Chissà. Solidarietà? Forse sì, ma … Nel succedersi di tanti eventi drammatici e di tante parole d’ordine confuse e contraddittorie cui le cronache martellanti dei telegiornali ci hanno abituato fino all’assuefazione (o alla tragica noia dell’impotenza) il 10 aprile 2017 potrebbe restare come una tappa significativa nella grande battaglia per la vita che non fa notizia ma fa del bene.
In questa data si è svolta a Roma al Palazzo della Farnesina una conferenza organizzata dalla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale con il sostegno del Comitato di Collegamento di Cattolici per una Civiltà dell’Amore.
Dibattiti accademici e manifesti programmatici se ne fanno tanti, ma in questa sede si sono voluti fissare alcuni punti fermi come primo passo di azioni concrete umanitarie e solidali quali le microimprese per l’Etiopia. In primo luogo il tema, che già nell’associazione di due enunciati di solito contrapposti, “Migrazioni e sviluppo”, definisce un’ottica nuova nell’affrontare il fenomeno migratorio. Una serie di avvenimenti di massa che, percepiti come svolta epocale, rischiano di stravolgere le cronache giornalistiche e gli stessi libri di storia che verranno scritti sugli anni che stiamo vivendo. Rischiano di rinchiudere l’Occidente nella spirale cinica di consumi sempre più fragili e vuoti.
E poi il metodo: le due grandi questioni, crisi economica e flussi migratori, non possono più essere esaminate a compartimenti stagni o quali realtà di cui nessuno è in grado di stabilire – nella polemica tra le scuole di pensiero più in voga – quale sia causa più o meno prevalente dell’altra. Questo, malgrado gli appelli non concordi tra loro di alcuni protagonisti della Cooperazione Italiana.
Il caso italiano, per una volta, con la sua tradizione diffusa di volontariato laico o religioso, con la sua storia di associazionismo cattolico, con le sue numerose, piccole e coraggiose imprese industriali ed agricole (si veda il modello della Coldiretti) potrebbe costituire un esempio virtuoso di sostenibilità e di progresso su scala planetaria?
Attraverso il coinvolgimento di enti pubblici e privati, tanti microprogetti nei Paesi a basso reddito sono in grado di promuovere sviluppo sia nelle nazioni sedicenti “ricche” che nel mondo cosiddetto “terzo”. Lo ha ricordato nel suo intervento introduttivo il vice ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Mario Giro, così come Paola Alvarez dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e Luigi Maria Vignali, direttore centrale per le Politiche Migratorie e i Visti del Maeci. Secondo Pietro Sebastiani, direttore generale della Cooperazione Sviluppo, la migrazione è un fenomeno talmente complesso e fluido che le soluzioni praticate debbono per forza di cose risultare vincenti per tutti.
Solo se si coinvolgono tutte le parti in gioco (a cominciare da Europa ed Africa) secondo una logica di arricchimento reciproco si potrà uscire dalle logiche – che si autoalimentano a vicenda – dello sfruttamento, dello spreco e della retorica.
La migrazione potrebbe essere uno scambio di doni e di conoscenze; non la tragica costrizione dei senza speranza. Il direttore dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) Laura Frigenti ha dichiarato che i fenomeni migratori devono essere gestiti più che contrastati e che nella maggior parte delle situazioni i risultati arrivano attraverso piccoli interventi quotidiani.
Il caso etiopico, citato dall’ing. Giuseppe Rotunno a nome delle iniziative di Civiltà dell’Amore, può fare scuola. Nel Wolayta, regione in cui due milioni persone vivono di stenti con un reddito familiare di cinque euro al mese, un quarto di questa popolazione non ha energia elettrica e acqua a sufficienza per i propri bisogni primari: figuriamoci per l’uso agricolo. Il progetto di microimprese prevede di fornire i primi 100 villaggi, con oltre 500.000 abitanti, di acqua ed elettricità. Ma non si limita a fornire pompe e mezzi tecnologici vari bensì formazione e capacità di mantenere nel tempo – e nei modi meno usuranti per il territorio – tali conquiste.
I giovani più brillanti, che potrebbero abbandonare il proprio Paese al suo destino sfortunato, sono il target primario naturale di un simile progetto. A dimostrazione che piccolo è spesso bello e che obiettivi semplici, focalizzati e realizzabili – che valorizzino le forze locali e un’agricoltura sostenibile in termini ecologici – possono essere i più duraturi. Anche laddove diano l’impressione di poche gocce di bene in un mare di necessità troppo vaste.
Le bibliche migrazioni delle cronache non possono essere contenute da forme culturalmente arretrate e diseducative di assistenzialismo, destinate allo spreco e ad alimentare i regimi più perversi. Occorre una rete di piccoli ma significativi interventi tarati sulle problematiche e sulle potenzialità economiche dei territori, sovente congelate dalle logiche monopolistiche dei grandi commerci internazionali (ce lo ricordano Fao e Coldiretti nel caso della iper concentrazione delle sementi agricole). Che sia la “glocalizzazione” la “civiltà dell’amore” che sogniamo?