22 anni dopo le stragi dell’11 settembre 2021, la liturgia del ricordo resta sostanzialmente immutata, ma l’intensità dell’emozione cala. E, come avviene da anni, l’anniversario non riaccende il patriottismo, ma le polemiche: sotto accusa, le lentezze della magistratura nel perseguire i responsabili, o almeno le menti e i complici, degli attacchi terroristici all’America dell’11 Settembre 2001.
I 19 terroristi kamikaze di quel giorno morirono tutti compiendo i loro attentati. Prima di partire per l’India, dove partecipa al G20, il presidente Usa Joe Biden ha respinto alcune delle condizioni per un possibile patteggiamento chieste dai legali di cinque integralisti a giudizio perché concorsero all’attuazione di quelle stragi.
L’accordo proposto prevedeva che i cinque riconoscessero le loro colpe e accettassero una condanna al carcere a vita, in cambio di assicurazioni sul fatto che non sarebbero stati messi in isolamento e che avrebbero ricevuto cure per i traumi conseguenti alle torture subite sotto la custodia della Cia. Il rifiuto di Biden di offrire ai legali dei terroristi garanzie presidenziali lascia ai pubblici ministeri militari e ai difensori il compito di trovare un accordo. Secondo numerosi esperti giuridici, non ci sono i presupposti legali per rinviare a giudizio e mettere sotto processo molti dei detenuti da oltre vent’anni nel carcere di Guantanamo, un’anomalia nel sistema penitenziario statunitense.
Il no del presidente ha accolto le raccomandazioni del segretario alla Difesa Lloyd Austin. Ma l’incertezza sulla possibilità di perseguire e condannare menti e complici dell’attacco all’America più sanguinoso mai compiuto rende ancora più doloroso l’anniversario per le famiglie delle vittime. Tanto più che, secondo quanto circolato sui media Usa, il Pentagono e l’Fbi, nei mesi scorsi, hanno già cercato di prepararle all’eventualità che i procedimenti giudiziari non vadano mai in porto.
Nelle ultime settimane s’era poi saputo che si stava valutando un’ipotesi di patteggiamento verso Khalid Sheikh Mohammed, uno degli ‘architetti’ dell’11 settembre, e altri quattro detenuti a Guantanamo. Ma la possibilità, osteggiata dai familiari delle vittime, è per il momento ‘congelata’.
L’intensità dei riti del ricordo va sbiadendo di anno in anno: il tempo rende slavate le emozioni, cambia le vite dei superstiti, porta via protagonisti e testimoni. Ormai oltre un americano su quattro non ha negli occhi un proprio ricordo di quegli eventi, perché era troppo piccolo o non era ancora nato quel giorno.
I riti, di per sè, restano inalterati: la chiama delle vittime là dove c’era il World Trade Center e poi Ground Zero e al Pentagono; i minuti di silenzio; i tintinnii di campanella all’ora degli schianti degli aerei e del crollo delle Torri; il minuto di silenzio a Wall Street e in molte scuole e sui luoghi di lavoro.
Quel martedì mattina di 23 anni fa, tre aerei di linea dirottati si schiantarono contro il World Trade Center a Manhattan, innescando il crollo delle Torri, e contro un’ala del Pentagono ad Arlington, appena fuori Washington. La rivolta dei passeggeri a bordo portò un quarto aereo, che doveva forse colpire il Congresso o la Casa Bianca, a precipitare a Shanksville, in Pennsylvania.
Non è solo il calendario ad appannare le commemorazioni; e non sono solo le pastoie giudiziarie che alimentano le polemiche. Ci sono almeno altri due fattori, che sono la polarizzazione dell’Unione e gli insuccessi nella guerra al terrorismo. L’America 2023 è molto meno coesa e unita di quella 2001 ed è lontanissima dall’afflato solidale e patriottico che, nel bene e nel male – guerre in Afghanistan e in Iraq, torture, ‘renditions’, violazioni dei diritti fondamentali -, l’attacco suscitò. Oggi, ‘trumpiani’ e progressisti provano reciproca diffidenza e non stanno volentieri l’uno accanto all’altro: rabbia ed astio ‘domestici’ prevalgono sulla percezione del nemico comune.
Tanto più che la guerra al terrorismo non ha portato i frutti sperati; anzi, s’è risolta in uno smacco. Due anni fa, nell’agosto 2021, la rotta di Kabul, con la consegna dell’Afghanistan ai talebani, diede plastica evidenza al fallimento di vent’anni d’inutile (e cruenta) presenza militare in quel Paese. E, dall’anno scorso, la guerra in Ucraina insanguina le cronache e accresce preoccupazioni e ansie, spostando le paure dal fronte del terrorismo a quello, ancor più spaventoso, dell’olocausto nucleare.
Il processo a Khalid Shaikh Mohammed egli altri quattro presunti elementi di al Qaida, le cui basi sono legalmente fragili, si trascina da anni, tra udienze di continuo rinviate o cancellate: negli Usa, non accade quasi mai.
Nel 2009, l’allora presidente Barack Obama annunciò che Mohammed sarebbe stato trasferito a New York per essere giudicato da un tribunale federale di Manhattan. Non se n’è fatto nulla, di fronte alla riluttanza della città e all’esorbitanza dei costi della sicurezza. Come rimase lettera morta la promessa di Obama di chiudere Guantanamo.
David Kelley, ex procuratore di New York, che ha co-presieduto l’indagine nazionale del Ministero della Giustizia sugli attacchi terroristici, considera ritardi e incertezze un fallimento giudiziario e “un’orribile tragedia aggiuntiva per le famiglie delle vittime”, che vedono scemare la speranza che un processo possa dare risposte a domande ancora irrisolte. Così, la giustizia, se si può chiamare giustizia, arriva da operazioni di commandos delle forze speciali – come quella che il 2 maggio 2011 eliminò il capo di al Qaida Osama bin Laden – o dai droni della Cia – che il 31 luglio 2022 hanno ucciso a Kabul il suo successore Ayman al-Zawahiri -.
In perenne campagna elettorale, e in guerra costante con il sistema giudiziario, che lo ha già rinviato a giudizio quattro volte, Donald Trump getta benzina sul fuoco delle divisioni e attacca l’Amministrazione Biden e magistrati e inquirenti, risvegliando i fantasmi di un’America che ha dentro di sé il nemico più insidioso, il germe del populismo e del complottismo.