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Carige: che ruolo svolge lo Stato

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Il comparto bancario in questi anni ha passato un periodo decisamente turbolento: dalla crisi di Mps alla riforma delle Banche Popolari operata dal Governo Renzi al salvataggio di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara, e al caso di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Fatti che, oltre ad aver colpito pesantemente la capitalizzazione in borsa di tutti gli istituti quotati, hanno provocato non pochi problemi a tutto il sistema Italia. Non si parla, infatti, solo della questione relativa a incagli e sofferenze, i cosiddetti Npe, ma anche di gravi lacune nel management e nelle politiche commerciali che hanno minato addirittura la fiducia in un settore cruciale nello sviluppo e nel sostegno dell’economia del Paese. Mentre alcuni gruppi, come Creval ad esempio, hanno messo in sicurezza i conti con le proprie forze, ricapitalizzandosi e operando una efficace pulizia degli attivi con la cessione dei crediti deteriorati; altri, come Carige appunto, non sono riusciti a rilanciarsi arrivando al punto di aver bisogno di un intervento diretto da parte dello Stato. La situazione di quest’ultima, però, è diversa da quelle preesistenti, infatti i guai della banca ligure non derivano direttamente da operazioni finanziarie sballate, come il caso delle cosiddette Santorini e Alexandria per Monte dei Paschi di Siena, o dalla concessione di finanziamenti “facili” come nel caso delle due venete, ma da una vera e propria crisi di gestione interna, oltre che, ovviamente, dagli strascichi della crisi economica che ne ha deteriorato una gran quota di crediti iscritti in bilancio.

Per trovare l’origine dei problemi di Carige è necessario tornare indietro nel tempo, come ben riportava un articolo di Panorama di qualche giorno fa: inizialmente la banca genovese era controllata dalla Fondazione Carige ma nel 2012, dopo una lunga fase di espansione in cui si acquisirono anche diversi sportelli dopo la fusione tra Banca Intesa e SanPaolo-Imi sul cui costo ci si potrebbe discutere ampiamente, le ispezioni di Bankitalia individuarono alcune irregolarità nella gestione, a cui si aggiunse il peso crescente dei prestiti deteriorati che andavano via via ad aumentare per via della recessione in atto. In risposta alla situazione Carige mise in cantiere alcuni aumenti di capitale che spinsero l’ingresso di nuovi azionisti e misero progressivamente in minoranza la Fondazione finché l’azionista principale diventò la finanziaria della famiglia Malacalza che, però, si è rifiutata di sottoscrivere l’ultimo aumento di capitale poiché, come motivazione ufficiale, la liquidità necessaria a garantire il funzionamento della banca era garantita dal bond di 320 milioni sottoscritto dal Fondo Interbancario. Questo non era, invece, il parere degli organi di vigilanza che, visto il fallimento dell’aumento di capitale, hanno deciso di commissariare la banca costringendo, poi, anche l’intervento del Governo. Tralasciando la somiglianza quasi imbarazzante tra il decreto del 2016 emanato dal Governo Gentiloni per chiudere la crisi di Mps e gestire l’insolvenza delle banche venete, come riportato da Il Sole 24 Ore che ne ha fatto un confronto approfondito, e al di là della retorica, anche ingenua, che ha accompagnato questa vicenda, del “Non abbiamo dato un euro alle banche” di Di Maio (per ora, almeno, sono stati stanziati 1,3 miliardi di euro tra garanzia al bond e eventuale ricapitalizzazione) e altre amenità simili, la questione è un po’ diversa dalla precedenti, meno grave se si volesse vedere. Il dissesto di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara, contrariamente a quello che la vulgata ha riportato, non ha comportato alcun costo per lo Stato; almeno inizialmente, infatti, i fondi per il risanamento furono supportati in gran parte dal Fondo Nazionale di Risoluzione, che è finanziato interamente dal settore bancario nazionale, e, in seguito, da risorse reperite internamente anticipando il bail in e azzerando i prestiti obbligazionari e le quote degli azionisti. Solo successivamente, dietro la spinta mediatica e dell’indignazione popolare, il governo Gentiloni stanziò 100 milioni a indennizzo dei piccoli e medi risparmiatori che erano stati coinvolti nell’azione e, quindi, con l’ultima finanziaria sono stati stanziati 1,5 miliardi di euro per rifondere il 30% del totale investito dagli azionisti e il 95% di quanto investito dagli obbligazionisti subordinati. Mps, nel 2016, fu ricapitalizzata dallo Stato con 3.9 miliardi a sottoscrizione di una ricapitalizzazione preventiva, per mettere definitivamente in sicurezza l’istituto senese; pur azzerando il valore delle quote degli azionisti precedenti i piccoli risparmiatori obbligazionisti furono tutelati con un complesso sistema, elaborato in accordo con le autorità europee, che è costato circa 1,5 miliardi ulteriori. Il Mef, oggi, è l’azionista di maggioranza della banca con oltre il 67% del capitale in portafoglio e il vero costo del salvataggio lo si potrà sapere solo tra due anni, nel 2021, quando le azioni dovranno essere cedute sul mercato; ad oggi, con la banca che capitalizza meno di 2 miliardi di euro la perdita potenziale si attesta intorno ai 3,7 miliardi. BPVi e Veneto Banca, invece, furono il salvataggio più oneroso poiché le due banche, sull’orlo del fallimento, vennero fatte acquisire da Intesa SanPaolo dopo aver spesato le passività per circa 4,7 miliardi e fornendo 12 miliardi di garanzie che, di fatto, vennero, poi, conteggiate nel debito pubblico.

Come si vede dai numeri qui presentati, quindi, il costo potenziale per lo Stato, in questo caso, sarebbe molto inferiore ma con la garanzia data al bond di prossima emissione non ci dovrebbero essere problemi nel suo collocamento sul mercato rendendo marginale sia il rischio di sottoscrizione con fondi pubblici sia la possibilità di una ricapitalizzazione preventiva, come nel caso di Mps, prima del possibile “matrimonio” con un partner strategico. L’azienda, una volta collocata l’obbligazione, sarebbe sufficientemente liquida per poter garantire il corretto funzionamento e il varo di un nuovo piano industriale volto a riconquistare la redditività e gli attivi verrebbero ripuliti con la cessione di una quota consistente di Npe che, pare, siano per la gran
parte coperti da garanzia reale e, quindi, piuttosto appetibili per il mercato. Ciò detto, benché non si possa garantire, oggi, che lo Stato non debba “spendere denaro pubblico” per il salvataggio della banca, lo scenario è sicuramente migliore di quello passato e la risoluzione del problema Carige porterà grandi vantaggi di sistema, riportando fiducia negli investitori e nei correntisti, ed evitando contraccolpi sul mercato del credito, poiché se un rallentamento dell’economia sia ogni giorno più certo, almeno stando ai dati che si possono leggere in questi giorni, un nuovo credit crunch (calo dell'offerta di credito) potrebbe avere delle conseguenze ben più gravi rispetto all’eventuale costo del salvataggio di un istituto di credito.

Matteo Gianola: