Breccia di Porta Pia: perché è un evento importante per la storia

Foto © Vatican News

La mattina del venti settembre del 1870, le truppe del Regno d’Italia, sotto il comando supremo del generale Raffaele Cadorna, in testa i bersaglieri, attraverso l’ampia breccia, aperta con cannonate a ridosso di Porta Pia, entrano nella città eterna. È la fine dello Stato della Chiesa che avviene proprio quando era in svolgimento il Concilio Vaticano I. Il suo territorio, nel periodo preunitario, per dimensione era inferiore solo al Regno delle due Sicilie, ma, nel biennio 1859-60, aveva perso dapprima le la Romagna e territori di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì per sollevazioni popolari e plebiscito a favore di Vittorio Emanuele II, poi le Marche e l’Umbria in seguito all’invasione dell’esercito sabaudo guidato dallo stesso Vittorio Emanuele II, diretto nel Mezzogiorno attraverso l’Abruzzo a incontrare Garibaldi per assumere il controllo dell’ex Stato borbonico e  impedirgli di marciare su Roma. I plebisciti del novembre 1860 sancirono la volontà popolare anche dell’Umbria e delle Marche di annessione allo Stato sabaudo.

Pio IX, sul trono di Pietro dal 1846, respinse la richiesta, pervenuta con lettera personale di Vittorio Emanuele II, di acconsentire all’occupazione italiana Al fine, però, di evitare uno scontro sanguinoso, ordinò al generale tedesco, Hermann Kanzler, che comandava il piccolo esercito, pontifico, una resistenza simbolica per dimostrare che si cedeva solo di fronte a un atto di prevaricazione. Si contano, dopo la resa, solo alcune decine di vittime, anche se lo Stato italiano aveva mobilitato ben quaranta mila soldati per penetrare a Roma da più direzioni.

All’occupazione, che però non tocca la città leonina con i palazzi vaticani, dove Pio IX e la corte pontificia si rinchiudono – lo imitano nei loro palazzi anche molte famiglie della “nobiltà nera”, rimasta fedele al Papa – segue, il 2 ottobre il plebiscito per sancire l’annessione e, l’anno successivo, prima il trasferimento della capitale del regno da Firenze e, nel mese di luglio, l’insediamento al Quirinale di Vittorio Emanuele II. Un bel libro, documentato e di facile lettura, è stato di recente pubblicato da Vittorio Vidotto, “20 settembre 1870” (Laterza 2020).

La presa di Roma del venti settembre del 1870 è un evento d’indubbia rilevanza per storia italiana e anche mondiale, perché rappresenta il coronamento del Risorgimento italiano e dell’unificazione nazionale, con ripercussioni sugli equilibri europei e perché, con la fine del millenario potere temporale della Chiesa, costituisce il fondamento del suo faticoso, progressivo, ripensarsi e strutturarsi come istituzione spirituale universale, che vede la sua difesa e garanzia, non più in uno Stato territoriale ma nella sua autorità morale derivante dall’essere interprete maestra del messaggio di salvezza del Vangelo. Il trasferimento della capitale a Roma accresce indubbiamente il prestigio del nuovo Stato che, in pochi decenni, ha superato la plurisecolare divisione dell’Italia, definita cinicamente, nel 1847, dal cancelliere austriaco Metternich come una mera “espressione geografica”.

Il nuovo Stato-nazione – uno dei soli tre chetra Ottocento e primo Novecento, si formano non per separazione dai grandi imperi dell’Europa centro-orientale, ma per unificazione di più realtà statuali preesistenti (Italia, appunto, Germania e Jugoslavia), inizia, a pieno diritto, a far parte del “concerto” europeo.

La presa di Roma, non a caso, è resa possibile dal fatto che la Francia di Napoleone III impegnata nella guerra contro la Prussia nel 1870, ritira la guarnigione militare posta nel decennio precedente a difesa dello Stato della Chiesa e, anzi, il Regno di Sardegna si era impegnato, nel 1964, con la Convenzione di settembre, non solo a rispettarne i confini, ma anche a impedire il ripetersi di tentativi di sovversione da parte di Garibaldi.

“La presa di Roma” è anche il titolo di un film italiano del 1905, diretto da Filoteo Alberini, agli albori del cinema italiano, Venne proiettato il 20 settembre 1905 sui bastioni di Porta Pia, di fronte a migliaia di persone, per celebrare il 35° anniversario della conquista della città. Più in generale, fino al 1930 la ricorrenza del 20 settembre fu celebrata come festa nazionale, senza, però, mai diventare un appuntamento popolare, neppure a Roma, tranne che negli ambienti connotati da perdurante anticlericalismo. Conquistata senza particolari sforzi la città e trasferita la capitale, per la classe politica più avveduta di allora si pose il problema di elaborare un’“idea di Roma”, come ha scritto magistralmente il grande storico Federico Chabod. Idea intesa come valore universale in grado di dare dignità ad una comunità.

Per Quintino Sella, in particolare, quest’idea doveva portare, dopo la Roma classica e la Roma dei papi, alla “Terza Roma” della scienza e del progresso. L’inevitabile, conseguente sviluppo industriale avrebbe, però, comportato il formarsi di “soverchie agglomerazioni operaie”, come dal colorito linguaggio di allora. E dopo l’esperienza della Comune di Parigi, la classe politica liberale tutta le percepiva e temeva come irrequiete e ribelli.

Per quanto concerne la fine del potere temporale, Pio IX, si rifiuto di accettare il fatto compiuto, considerato di usurpazione e si considerò prigioniero in Vaticano.  Anche se con la “Legge delle Guarantigie”, del 13 maggio 1971, al papa si assicuravano titolo ed onori sovrani e il diritto di inviare proprie rappresentanze all’estero e di accoglierle presso di sé. Lo Stato s’impegnava, inoltre, a rinunciare a ogni ingerenza nella vita della Chiesa e a permettere una guardia armata nei palazzi Vaticano e Laterano e nella Villa di Castel Gandolfo, nonché a garantire un appannaggio annuale corrispondente alle entrate dello Stato pontificio.

Ne conseguì, per diversi decenni, la cosiddetta “Questione romana”, cioè il rapporto di diffidenza-contrapposizione tra Chiesa e Stato, ben diversamente dal sogno di Cavour della “Libera chiesa in libero Stato”, che riguardò non solo la Chiesa istituzione ma i cattolici nel loro insieme. I cattolici “intransigenti” si attengono, infatti, alla prescrizione, “né eletti, né elettori” e, in tal modo, la base di consenso dello Stato liberale, già indifferente e ostile nei confronti dei ceti popolari, si assottiglia ancor più. Troppo breve, dopo la tragedia della Grande guerra, la ricca e innovativa stagione del Partito popolare, soppresso come gli altri partiti antifascisti dal Regime, dopo la crisi per l’assassinio di Matteotti, ma anche sacrificato dalla Santa Sede sull’altare della Conciliazione che si realizza nel 1929 con i Patti del Laterano.

Quali riflessioni, a posteriori, sono state proposte in ambito ecclesiastico. Ne propongo due. La prima è di monsignor Domenico Tardini, per decenni assieme a monsignor Giovanni Battista Montini, al vertice della Segreteria di Stato, poi segretario di Stato di Giovanni XXIII, in una  pagina di un suo diario, che io ho pubblicato in appendice alla sua biografia nel 1988, scrive , l’11 febbraio del 1934, in occasione della ricorrenza della firma dei Patti lateranensi: “Liquidare la questione romana fu senza dubbio un gran bene per l’Italia che si tolse di colpo di fronte ai cattolici dell’estero la dolorosa nomea di spogliatrice e carnefice del papa, e per la santa Sede, che, con l’andare degli anni, sarebbe stata ridotta a protestare senza che nessuno la prendesse sul serio, perdendo così, oltre il regno, anche il prestigio”.

La seconda, datata 10 ottobre 1962 è dell’allora arcivescovo di Milano, cardinale Giovanni Battista Montini. In una conferenza sui concili ecumenici, tenuta a Roma, in Campidoglio, nella Sala degli Orazi e Curiazi, davanti al presidente della Repubblica, a molte autorità civili, militari e religiose e a molti diplomatici. In un passaggio che merita di essere ripreso nella sua interezza, il cardinale Montini, che meno di un anno dopo, sarebbe stato eletto papa, affermò, parlando del 20 settembre del 1870: “Parve un crollo; e per il dominio territoriale pontificio lo fu; e parve allora, e per tanti anni successivi, a molti ecclesiastici ed a molti cattolici non potere la Chiesa romana rinunciarvi e accumulando la rivendicazione storica della legittimità della sua origine con l’indispensabilità della sua funzione, si pensò doversi quel potere temporale ricuperare, ricostituire. E sappiamo che ad avvalorare questa opinione per cui fu così travagliata e priva delle più cospicue sue forze, quelle cattoliche, la vita politica italiana, fu l’antagonismo sorto tra lo Stato e la Chiesa. Parole concilianti, ma seguite da contrari fatti severi, non valsero a rassicurare il Papato che, privato, anzi sollevato, dal potere temporale, avrebbe potuto esplicare egualmente nel mondo la sua missione; tanto più che nell’opinione pubblica a lui avversa era diffusa la convinzione, anzi la triste speranza, che la secolare istituzione pontificia sarebbe caduta, come ogni altra istituzione puramente umana, col cadere dello sgabello terreno sul quale appoggiava da tanti secoli i suoi piedi, voglio dire la sua presenza politica nel mondo e la sua sempre mal difesa indipendenza”.

Ancora più importante il seguente passo, con implicazioni non solo storiche ma anche teologiche: “Ma la Provvidenza, ora lo vediamo bene, aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando negli avvenimenti. Il Concilio Vaticano I aveva infatti da pochi giorni proclamata somma ed infallibile l’autorità spirituale di quel Papa che praticamente perdeva in quel fatale momento la sua autorità temporale. Il Papa usciva glorioso dal Concilio Vaticano I per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà nella Chiesa di Dio e usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma, ma com’è noto fu allora che il Papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di Maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai”.