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Balcani: una bomba pronta ad esplodere

INel silenzio generale dei media, i Balcani tornano in uno stato di allerta a bassa intensità, come già capitato alla fine degli anni ’80, preludio degli scontri fratricidi che hanno segnato la sanguinosa dissoluzione della Jugoslavia. Dopo l’arresto e la detronizzazione di Slobodan Milošević (con conseguente castrazione delle velleità politiche serbe nella regione), la penisola balcanica è riuscita a trovare un precario equilibrio, spezzettata in sette Stati autonomi (compreso il controverso Kosovo) attraversati da numerosi problemi sociali, dal livello di sviluppo per nulla paragonabili all’economia jugoslava, nonché dal peso politico molto limitato. Preda delle mire di Nato, Russia, Cina e Turchia, i Balcani sono diventati oggetto di contesa dell’ennesimo “grande gioco” internazionale. Ed in mezzo a queste pericolose manovre, il rischio di spezzare il precario equilibrio politico-linguistico-etnico è davvero molto alto. La miccia che potrebbe innescare un pericoloso effetto domino è rappresentata dalla Macedonia, dal trattato di Prespes e dal suo ingresso nella Nato, con successive ripercussioni sul Kosovo ed, ovviamente, sulla Serbia. Da Skopje a Sarajevo, i Balcani sono in stato di silenziosa ebollizione, complice un’opinione pubblica europea distratta.

Il recente Trattato di Prespes vidimato da Atene e Skopje sembra apparentemente aver risolto un problema presentatosi con il riconoscimento della Repubblica ex-jugoslava di Macedonia (Fyrom) da parte della comunità internazionale: la dicitura “Macedonia del Nord” ha accontentato la controparte greca, eliminando almeno formalmente qualsiasi inappropriata rivendicazione slavo-macedone su un glorioso passato (quello della Macedonia classica di Alessandro Magno) decisamente di marca greca. L’equilibrio politico balcanico, però, è una partita a tetris: spostare determinati tasselli per sistemare le relazioni greco-macedoni significa inevitabilmente innescare una serie di processi che coinvolgono varie forze internazionali. L’accordo di Prespes, infatti, schiude le porte dell’ingresso della Nato e dell’Ue alla Macedonia, che diventerebbe l’ultimo tassello del puzzle balcanico dell’alleanza atlantica che, nella regione, può già contare sull’appoggio della Croazia, del Montenegro, della Grecia e dell’Albania (compreso il suo Stato-doppelganger, il Kosovo oramai a maggioranza filo-albanese). La Russia, come prevedibile, ha già espresso il suo disappunto portando la questione della legittimità dell’accordo di Prespes all’attenzione delle Nazioni Unite facendo leva sul paragrafo 3 della risoluzione 845. Al tetris balcanico gioca anche la Turchia, sempre più alleata nonché diretta finanziatrice di forze politiche filo-mussulmane, organizzazioni religiose, istituti ed Ong che soffiano sui bracieri dell’espansionismo albanese e su un “ottomanesimo” di ritorno. Un esempio è il partito macedone Besa, indicato da alcuni analisti come chiara espressione della longa manus di Erdoğan sulla Macedonia. L’ingresso di Skopje nelle strutture Nato ed Ue aprirebbe un vaso di Pandora: incoraggiata dalla crescente influenza sulla regione ed in nome di una “pax albanese” nella regione, Tirana potrebbe, di fatto, in futuro annettere definitivamente il Kosovo (tirandosi dietro, probabilmente, la Macedonia albanese) tramite un semplice referendum popolare in stile Crimea che avrebbe un esito a dir poco scontato, considerando la composizione etnica del Paese non riconosciuto da Serbia, Russia e Cina.

L’annosa questione del Kosovo zavorra la politica estera serba da, ormai, un ventennio. Belgrado, nonostante l’appoggio a tratti labile, ma incondizionato di Mosca, vede indebolire anno dopo anno la propria posizione. In altre parole, la Serbia è accerchiata da strutture militari avversarie, da una crisi che non ha mai fatto decollare le economie balcaniche e da un potere politico ancora indeciso, al contrario della popolazione recalcitrante, in relazione ad un ingresso nelle strutture europee che comporterebbe la definitiva rinuncia sui territori kosovari sottratti nel 1999.

D’altra parte, però, un accordo vero sulle municipalità autonome serbe del Kosovo settentrionale (in cambio di un pieno riconoscimento di Pristina in quanto stato autonomo) con Tirana non solo non è arrivato, ma non sembra paventarsi neanche all’orizzonte, mentre il Presidente kossovaro Thaçi, pochi mesi fa, si è reso protagonista di un provocatorio sconfinamento presso il lago di Gazivode, episodio che ha contribuito ad alzare la temperatura e a rievocare fantasmi passati, così come la volontà di Pristina di rendere le proprie forze di sicurezza un vero e proprio esercito con il benestare della Nato. Dopo oltre vent’anni ben poco è cambiato da un punto di vista politico: nel malaugurato caso Tirana dovesse annettere il Kosovo (Paese che incarna le sopite voglie di una grande Albania), Belgrado potrebbe presentare le stesse istanze nella Respublika Srpska di Bosnia, andando a minare l’integrità della Bosnia Erzegovina e la stabilità raggiunta a Dayton, formula precaria ma garante, quantomeno, di una pace labile. La recente ovazione che ha accompagnato Vladimir Putin a Belgrado è la prova vivente di una polarizzazione quantomeno rischiosa: la Serbia è una dichiarata “costola” delle ambizioni strategiche russe, con Mosca pronta a fidelizzare Belgrado anche attraverso aiuti militari, economici e, soprattutto, energetici più sostanziosi. La Serbia, infatti, con buona probabilità aggancerà i Paesi europei al gasdotto TurkStream inaugurato mesi fa con la complicità di Ankara, riscopertasi preziosa alleata. La penisola balcanica, dunque, sarà teatro di vari scontri globali su più livelli: Nato contro Russia, da un punto di vista militare, nonché Russia e Turchia contro gli interessi economici della Germania “mascherata” da Unione Europea.

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