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Quella prima talare bianca ad Auschwitz

Giovanni Paolo II fu il primo papa a visitare Auschwitz, a nemmeno un anno dall’elezione a pontefice. La visita-pellegrinaggio di Karol Wojtyla ad Auschwitz–Birkenau (7 giugno 1979) fu la prima di un Papa in questo sacrario del dolore. Celebrò l’Eucaristia e pronunciò una commovente omelia che aprì con queste parole: “Luogo costruito sull’odio e sul disprezzo dell’uomo nel nome di un’ideologia folle, luogo costruito sulla crudeltà. Ad esso conduce una porta, ancora oggi esistente, sulla quale è posta una iscrizione: ‘Arbeit macht frei‘, che ha un suono beffardo, perché il suo contenuto era radicalmente contraddetto da quanto avveniva qua dentro”. La pagina più buia della storia  contemporanea. “Auschwitz è un conto con la coscienza dell’umanità attraverso le lapidi che testimoniano le vittime di questi popoli che non lo si può soltanto visitare, ma bisogna anche pensare con paura a questa che fu una delle frontiere dell’odio – disse Karol Wojtyla nella Messa celebrata nel campo di concentramento-. Auschwitz è una testimonianza della guerra. La guerra porta con sé una sproporzionata crescita dell’odio, della distruzione, della crudeltà. E se non si può negare che essa manifesta anche nuove possibilità del coraggio umano, dell’eroismo, del patriottismo, rimane tuttavia il fatto che in essa prevale il conto delle perdite. Prevale sempre di più, perché ogni giorno cresce la capacità distruttiva delle armi inventate dalla tecnica moderna. Della guerra sono responsabili non solo quanti la procurano direttamente, ma anche coloro che non fanno tutto il possibile per impedirla”.

AUSCHWITZ
Foto: Vatican news

Fin da giovane per Karol Wojtyla la Resistenza al nazismo è stata anche una questione culturale. È l’anima polacca che cerca di sopravvivere disperatamente. Cracovia ribolle di iniziative clandestine. Si fa notare il Teatro Rapsodico, che mette in scena recital a sfondo patriottico in case private, chiese e scuole. “L’attor giovane” del Teatro Rapsodico è appunto Karol Wojtyla. La guerra lo ha travolto appena ventenne: fidanzato, iscritto alla facoltà di filosofia di Cracovia, si avvicina istintivamente alla Resistenza cattolica. Vive con il padre malato in uno scantinato. Dopo che i tedeschi hanno sospeso i corsi a cui è iscritto, per evitare la deportazione di giorno lavora in una miniera, di notte studia. Legge le opere di san Giovanni della Croce e santa Teresa d’Avila, s’immagina drammaturgo. Teatro e filosofia nel giovane Wojtyla diventano un tutt’uno. Scrive in quel periodo: “L’azione teatrale vive rallentata e l’uomo si libera dall’eccesso importuno del gesto, dall’attivismo che soffoca l’essenza interiore e spirituale dell’uomo. È la parola che impegna a pensare. Recitare è già in sé un atto di resistenza ai nazisti”.

Auschwitz
La targa che ricorda la visita di Papa Wojtyla nel 1995 a S. Spirito in Sassia. Foto: Vatican News

I nazisti avevano chiuso tutte le scuole a eccezione delle elementari. I corsi di istruzione superiore si tenevano negli appartamenti in maniera segreta, Karol Wojtyla per un anno riuscì a insegnare filologia e poi era molto attivo nel far circolare le informazioni. Faceva parte della Sodalitas Mariana e le poche radio sfuggite ai tedeschi funzionavano nei conventi. Racconta padre Adam Boniecki, sacerdote polacco, amico di vecchia data del futuro Giovanni Paolo II: “Karol Wojtyla faceva parte dell’Unia, una cellula segreta della Resistenza polacca che affiancava il ramo militare. Si occupava di informazione e cultura appoggiandosi al Teatro Rapsodico di Wadowice”. Molti membri dell’Unia vennero deportati appena scoperti. Vive sul filo del rasoio, il giovane Wojtyla. Un giorno del 1941, al ritorno nel seminterrato, trova il padre senza vita. È con un’amica, Maria. La abbraccia e piange: “Non sono stato accanto al letto di morte di mia madre, né di mio fratello, né di mio padre”. Da un anno lavora in una cava che fornisce sodio alla fabbrica chimica Solvay, dove carica pesanti pietre sui carrelli a rotaia. Ogni giorno percorre a piedi sette chilometri all’andata e sette al ritorno. Dopo la morte del padre ottiene il trasferimento in fabbrica, dove il lavoro però non è meno pesante. Con un bilanciere sulle spalle, trasporta secchi colmi di materiale fino a un “bollitore” in cima a una rampa di scale. Continua intanto a frequentare i suoi amici del teatro. Nel dicembre del 1941 la Gestapo arresta duecento persone nel caffè dove in genere i giovani si incontrano; la maggior parte finisce ad Auschwitz o fucilata. “Anche Karol avrebbe potuto fare quella fine. Deve solo ringraziare la fortuna”, ha commentato un amico, Wojciech Zukrowski.

AUSCHWITZ
Foto © Vatican News

Poco dopo, all’inizio del 1942, Wojtyla decide di farsi prete, come spiegherà in un discorso al clero nel 1995: “La vocazione sacerdotale maturò in me proprio in quella difficile situazione. Maturò tra le sofferenze della mia nazione, maturò nel lavoro fisico tra gli operai, maturò anche grazie alla direzione spirituale di vari sacerdoti, specialmente del mio confessore“. Fu seminarista, ancora una volta clandestino, in una sorta di istituto messo su dall’allora vescovo di Cracovia Adam Sapieha. Una trentina di giovani studiavano in un convento senza farsi notare. Io avevo uno zio sacerdote che un giorno, parlando col vescovo, vide entrare una sorta di elettricista. C’era un interruttore guasto, il giovane tecnico lo riparò e senza una parola uscì dalla stanza. Sapieha disse: “Vedi quel giovane? È un seminarista, farà molta strada“. Poiché nessun seminario è autorizzato, chi frequenta quello clandestino rischia la vita. Karol conduce per due anni una doppia esistenza, sfiorando la tragedia a ogni passo. Il 29 febbraio 1944 un camion militare tedesco lo investe: lo trovano steso sull’asfalto, vivo, ma in coma. Per fortuna si riprende. Il 6 agosto i tedeschi setacciano il suo quartiere con un rastrellamento senza precedenti. Nel suo palazzo perlustrano i vari piani, ma tralasciano il seminterrato. È così che Karol si salva. Con un po’ di buona sorte e una grande fede. Da allora e per sempre è devoto al suo Angelo custode, in cui crede senza tentennamenti. “Il mio Angelo custode sa che cosa sto facendo. La mia fiducia in lui, nella sua presenza protettrice, si va in me costantemente approfondendo“, scriverà tantissimi anni dopo in “Alzatevi, andiamo!”.

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